giovedì 30 luglio 2009

ApertaMente

Emergenza e sincronizzazione spontanea sono processi caratteristici nei sistemi che si auto-organizzano. E' quello che è accaduto durante il convegno "Uscire dalla crisi : nuovi modelli per il management", tenutosi a Milano il 21 luglio ed organizzato da Francesco Zanotti della M&C, con la consulenza scientifica dell'AIRS (Associazione Italiana per la Ricerca sui Sistemi), rappresentata dal guru della sistemica italiana, Prof. Gianfranco Minati, e dell' ISEM (Institute for Scientific Methodology), di cui sono con il chimico Mario Pagliaro il fondatore.
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Cosa significa fare impresa in una società che non può più essere modellizzata dalla metafora della macchina?Come si gestiscono i processi di cambiamento (costruzione) dell’organizzazione e del mercato? In sintesi: come si costruisce sviluppo etico ed estetico? Queste le domande comuni ad un operatore nel campo della consulenza d’impresa, ad un epistemologo costruttivista, ad un fisico dei sistemi collettivi che studia i processi di produzione scientifica.
Come le voci di un’invenzione di Bach , tre approcci e linguaggi diversi si sono intrecciati ed integrati in una visione unitaria. L'idea di fondo è che la "crisi" che stiamo vivendo è frutto di miopia culturale e richiede una "riflessione trasgressiva" sulla necessità di nuovi modelli e metafore per leggere e trasformare il reale. Che significa poi ritrovare gli anelli di congiunzione vitali tra economia, ecologia ed epistemologia ed imparare a vederne le possibili rotte di collisione . E' il tema sempre più urgente posto da un sistema in cui la produzione non è più basata esclusivamente sui beni materiali , ma sulle dinamiche delle relazioni intellettuali ed emozionali tra esseri umani e sull’emergenza di nuovi soggetti sociali. Vedi ad es. Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra (a cura di),
Crisi dell'economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, postfazione di Toni Negri, Verona, Ombre Corte, 2009, e l'indispensabile: Marcello Cini, "Il SuperMarket di Prometeo. La scienza nell'era dell'economia della conoscenza” , Codice Ed.,2008)
Il modo di pensare della società industriale e del mercato è ancora basato invece su un modello riduzionista e meccanico di homo oeconomicus stilizzato quanto quello degli urti perfettamente elastici o dei fluidi perfetti in fisica classica, ed è centrato su nozioni di stabilità, equilibrio e dinamiche deterministiche insufficienti a cogliere la complessità del quadro socio-economico. Come dice Paul Wilmott: "Fidarsi delle formule era come stare seduti con la cintura di sicurezza allacciata guidando come pazzi: non serve a salvarti la vita. Le persone che si occupano di gestione sanno ben poco di ciò che dovrebbero; non hanno spirito critico, non hanno testato i dati e non hanno usato la loro immaginazione per cercare vie d’uscita ai problemi”.
Inutile dire che la "politica" segue a ruota e diventa il paradigma di un modello infecondo.
Una tipica risposta apparente ed "automatica", sono le dinamiche "competitive", che si presentano come liberazione di energie creative e sono invece in larga misura strategie di difesa e conservazione: la concorrenza non nasce dal mercato ma è una forma di auto-costruzione dei partecipanti, di legittimizzazione reciproca e di accumulazione delle “anomalie” ai margini.
Come fisico non ho potuto fare a meno di pensare a molte teorie alla moda che hanno già esaurito il loro ciclo vitale e si presentano invece - anche grazie alla beatificazione mediatica - come vive, combattive ed "eleganti", ben arroccate nel loro castello di papers crescenti con una velocità superiore a quella della luce (possono farlo perché, come dice Bob Laughlin, non trasportano informazione!).
Particolarmente interessante è il caso della mitologia diffusa dell'innovazione tecnologica, che non può colmare il gap della produzione di ricchezza delle imprese tradizionali e sopratutto non cambia il rapporto tra lavoro, capitale ed ambiente. La tecnologia, in sé, non può essere un driver di nuove progettualità, ma assume piuttosto il ruolo di racconto consolatorio sulle sorti magnifiche e progressive alle quali si vuol credere. Questo tipo di "story-telling" ha l'unica funzione di "tirare il collo" alla famosa funzione logistica, la curva ad S usata per modellizzare i processi di sviluppo. All'inizio, la crescita è quasi esponenziale, successivamente rallenta, diventando quasi lineare, per raggiungere una posizione asintotica dove non c'è più crescita. La competizione ed un'errata, o demagogica, visione dell'innovazione ha proprio il ruolo di ritardare il destino asintotico della curva di crescita, dove invece il problema è quello di innescare una nuova singolarità.
Ma questo non avviene, perché gli schemi cognitivi utilizzati sono sempre gli stessi.
E' necessario dunque un ripensamento radicale del rapporto tra conoscenza e mercato, ed accettare la sfida dell'incertezza radicale, la povertà della completezza e la ricchezza dell’incompletezza, imparando a rilevare emergenza (Minati).
Come ha scritto Cesare Sacerdoti sul Tempo Economico annunciando la giornata di studio:
“Per quanto riguarda i “pratictioners” lo stato dell’arte dell’utilizzo della cultura strategica rasenta l’ignavia. Un solo esempio: definire un business plan “Info memorandum” è davvero la dichiarazione, sostanziale se non formale, che la nostra conoscenza riesce solo a descrivere il presente, a prenderne atto. Se, poi, guardiamo a più generali culture e pratiche di Governo lo scenario è ancora più deludente, sia nella teoria che nella pratica”. Clip_image002
Le tradizionali analogie tra ecosistemi ed sistemi socio-economici mostrano una debolezza che è stata la sorgente storica di tante deformazioni "naturalistiche" della teoria economica (vedi L'Orologiaio Cieco e la Mano Invisibile). Un ecosistema non ha un modello cognitivo di sé stesso, un sistema socio-economico si! Il punto essenziale è che il management è non semplicemente una derivazione economica dell'azienda, ma ne costituisce il sistema cognitivo (Licata).
Un esempio è la marginalizzazione del concetto di cooperazione, riservato ad una dimensione "etica" ed "estetica" del mercato e dunque ineluttabilmente "altra".La "cooperazione" di cui parliamo- trasportata dai paesaggi di fitness della Artificial Life- nasce dalla capacità di una classe manageriale di usare più strumenti interpretativi per comprendere il mondo, ed il suo "successo" dipende dall'ampiezza dei suoi strumenti epistemologici e dalla loro capacità di accogliere le dinamiche sociali, non puntando su un "bisogno" o inducendolo, ma entrando in sintonia con le esigenze profonde del tempo. Sfuma dunque la tradizionale distinzione tra stakeholders e shakeholders in una visione costruttivista e sistemica delle dinamiche sociali (Minati). Stesso discorso per la “sostenibilità”, non più fanalino di coda o fiore di carta utopico, ma capacità di pensare il rapporto tra sistema- impresa ed ambiente a lungo termine ed in senso globale.
Il manager è dunque come un “operatore quantistico” che agisce sulle potenzialità del possibile rendendole reali ( Zanotti). Ma non ci si è limitati ad una discussione critica per metafore. All’interno del modello “Sorgente Aperta” di Zanotti è stato proposto un modello di life-cycle e di rating delle imprese basato su una matrice "fuzzy" estremamente facile da usare ed assai più efficace di certi schemi che somigliano alla risposta “quantitativamente esatta” del computer della Guida Galattica per Autostoppisti, di Douglas Adams:
Quarantadue!" urlò Loonquawl. "Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?"
"Ho controllato molto approfonditamente," disse il computer, "e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda."
Un’ immagine, per concludere. Il colosso Sony nacque nel Giappone disastrato del 1946 dalla visione di Akio Morita, un fisico, e Masaru Ibuka, ingegnere, per “riportare alto l'onore del Giappone nel mondo”. A ricordarci che il successo di un’impresa- economica, scientifica, culturale- è sempre il risultato di una storia d’amore con il proprio tempo.

domenica 26 luglio 2009

Lettera aperta a Gianni Riotta



Egregio Direttore,
ho letto giusto ora (domenica 26 luglio 2009) il suo “Sogno italiano di mezza estate”. Certamente scritto bene, certamente saggio, ma … il problema sta nei cubetti del lego.
Ha presente quegli artisti che con i cubetti di lego costruiscono immense cattedrali, altrettanto fantastici ponti e quant’altro? Bene, costoro dispongono di una grande vastità e varietà di cubetti di lego …

 Oggi, come tutti stanno, piano piano, riconoscendo, è necessario riprogettare una nuova società. Niente di più niente di meno. E come si progetta una nuova società? Ecco che arriva il problema dei cubetti di lego …
Fuor di metafora, ma non troppo … Ogni società ha alla sua base un certo numero di cubetti di lego, cioè una visione del mondo che si sostanzia in un sistema specifico di modelli e metafore. In un linguaggio, insomma, che diventa lo spazio del possibile di quella società.
La nostra società è fondata su di un “cubetto” fondamentale. Esso è costituito dalla visione del mondo di Galileo: “le fondate esperienze e certe dimostrazioni”. Questa visione del mondo è stata profetica perché ha permesso un aumento straordinario della qualità della vita. Ma ora la società che è stata generata dal cercare “sensate esperienze” e dal credere in “certe dimostrazioni” ha raggiunto il suo limite di compatibilità sia con l’uomo che con la natura.
Se noi vogliamo abbandonare lungo la storia questa società e progettarne un'altra, dovremmo abbandonare la visione del mondo e il sistema di modelli e metafore che l’hanno generata.
Per fortuna intorno a noi esistono mille negozi di nuovi cubetti. Esiste una nuova visione del mondo ed è proprio nata dalle due scienze che Galileo riteneva fondamentali: la fisica (le sensate esperienze) e la matematica (le certe dimostrazioni). Queste due scienze ci hanno insegnato a superare loro stesse. La fisica ci ha insegnato a superare le sensate esperienze: quando si guarda il mondo, in realtà, lo si costruisce, non lo si misura. E la matematica ci ha insegnato a superare la cultura delle certe dimostrazioni: l’uomo non costruisce teorie, che deve, poi, difendere da altre teorie, ma scrive storie che può difendere solo esteticamente.
Da questo superamento sono nati mille nuovi modelli e mille nuove metafore che, se vuole usare un termine noto, può raggruppare nell’espressione “cultura della complessità”. Per concretizzare il discorso che ho fatto, e visto che Ella dirige un giornale economico, l’economia che va per la maggiore è ancora legata alla visione galileiana del mondo. Infatti, parla di “leggi dell’economia”. La nuova cultura della complessità rivela che “leggi dell’economia” non esistono. Esse sono una nostra costruzione e, se non ci vanno bene, potremmo formularne altre …
Il problema è che le classi dirigenti economiche, sociali, politiche, istituzionali, mediatiche conoscono ed usano solo la vecchia visione del mondo. Ed allora, quando si sforzano di progettare il futuro, non fanno che rimescolare le carte del passato. Cioè giocare con i cubetti lego che hanno a disposizione. Quando leggo i giornali al mattino la sensazione di un continuo rimescolare delle stesse cose diventa sempre più forte.
Per superare questa situazione, che noi crediamo essere una crisi nata da mancanza di regole e da comportamenti poco etici, e che è, invece, sostanzialmente un blocco “cognitivo” di tutta una classe dirigente, noi stiamo proponendo un nuovo sogno per questa nostra mezza estate: diffondere ed iniziare ad usare a fini progettuali una nuova visione del mondo. E, poiché siamo persone pratiche, abbiamo già iniziato a realizzare questo sogno …
Il 21 luglio scorso abbiamo presentato in un Evento di Fondazione l’idea di un Expo della Conoscenza, che raccolga e renda disponibili tutti i modelli e le metafore che costituiscono la cultura della complessità. Le invio il programma di quella giornata. Le invierò, se sarà di suo interesse, gli atti della giornata stessa.
Per realizzare il nostro Expo della conoscenza stiamo cercando tutto l’aiuto possibile perché siamo convinti che l’Expo della conoscenza sia la proposta che possa sbloccare l’impasse della nostra vita economica, sociale, politica e istituzionale.
Ma sarebbe veramente dannoso per tutti se questa proposta fosse costretta a seguire la vicenda di tutte le proposte veramente innovative. All’inizio, vengono completamente trascurate da una classe dirigente che, prima, legge chi invia e, poi, se conosce l'emettitore, i contenuti, dimenticando che contenuti innovativi, per definizione, possono venire solo da sconosciuti. Viene trascurata dalla grande maggioranza, ma da qualcuno no! Questo qualcuno gli farà da cassa di risonanza, perché è davvero rivoluzionaria. Allora non sarà più trascurata, ma combattuta. Finalmente, ma inesorabilmente, si imporrà. Con tutta la susseguente e stucchevole esaltazione retorica e fuorviante di chi l'ha proposta come coraggioso campione dell'innovazione.
Io le scrivo questa lettera aperta, che pubblicherò sui nostri blog (http://balbettantipoietici.blogspot.com/ e www.meconsulting.org) perché a noi tutti, che scriviamo a leggiamo questi blog, piacerebbe molto una sua risposta. La ragione è che, se ha sentito il bisogno di scrivere il fondo di oggi, significa che condivide la nostra convinzione che un altro mondo non solo è possibile, ma doveroso. Le scrivo questa lettera aperta, allora, perché le propongo di diventare nostro alleato per realizzare davvero un Expo della conoscenza. Così  da fornire alla nostra classe dirigente un’intera nuova batteria di cubetti di lego per costruire una nuova
cattedrale sociale.
La ringrazio per l’attenzione e cordialmente la saluto
Francesco Zanotti

mercoledì 8 luglio 2009

21 Luglio “terza”. Discernimento e nuova progettualità


"Discernimento e nuova progettualità" è una espressione dell’Enciclica “Caritas in veritate”.
Essa rappresenta quella che a me sembra una risposta ad una stringente necessità: dobbiamo trovare un nuovo senso del fare impresa. Guardando con occhi più profondi l’oggi (discernimento) e con la voglia etica di costruire una nuova modalità di intendere e fare impresa.

Nella letteratura economico-manageriale questa sfida è riassunta in una sigla: CSR (Corporate Social Responsibility). Ma a me sembra sia ora di ripensare profondamente a questo concetto, forse proprio nell’ottica del discernimento e della nuova progettualità.

Fino ad oggi ha prevalso una concezione della CSR, che possiamo definire “industriale”. Si può sintetizzare nel modo seguente: fare ben il proprio “mestiere”, rispettando le leggi, non sfruttando le persone e la natura. E, auspicabilmente, rinunciando a parte del profitto per aiutare le aree del disagio o, mecenatescamente, per favorire una cultura che, detto per inciso, viene oggi mediamente intesa in senso “museale”.

Questa concezione spinge a valutare i vantaggi della CSR in modi molto “banali”: serve a dare una patina di “bontà” (quasi di buona educazione) che viene, enfaticamente, considerata: “vantaggio competitivo”. Ma che appare, sempre più, come solo e soltanto una medaglietta da esibire nei convegni.
Oppure, si sostiene che questa “medaglietta” possa venir premiata dal mercato azionario con una migliore valutazione del titolo. Ma i dati di questo ultimo anno smentiscono clamorosamente questa correlazione.

Dietro questa concezione “industriale” della CSR vi è una precisa visione dell’impresa: è un attore economico con una mission ed un business definito e stabile. Cioè con una funzione sociale definita, riconosciuta e stabile all’interno di una società altrettanto stabile e di una natura con risorse infinite. Questa impresa è immaginata avere una proprietà monolitica.
Il ruolo degli stakeholders viene considerato “di controllo” perché l’impresa non esageri nella ricerca del profitto.
Si considerano, insomma, le imprese come corpi staccati e specialistici della società.

In questa concezione della CSR si usa una specifica e limitata accezione di “sociale”. Con “sociale” si intendono, sostanzialmente, specifici settori della società: dalle aree di disagio al mondo del no profit. In sostanza, si contrappone il mondo economico del profitto e il mondo “sociale” della gratuità; considerando l’impegno nella gratuità come un modo per farsi perdonare il profitto.

Oggi questa concezione della responsabilità sociale e dell’idea di fare impresa che ci sta dietro non funziona più.

La recente crisi sta dimostrando che le imprese attuali hanno perso la loro capacità autonoma di produrre valore. Tutti credono che si possa superare la crisi solo se l’impresa viene soccorsa dallo Stato. In una società industriale (sia nella sua versione capitalista che collettivista) questo tipo di rapporto tra impresa e Stato nega la ragione stessa dell’esistere dell’impresa. Infatti, in una società industriale, è l’impresa che produce valore che, poi, lo Stato decide come impiegare. Lasciandolo, dopo le tasse, nella libera disponibilità dell’imprenditore se si tratta di uno Stato che crede nel mercato. Decidendone direttamente tutti gli impieghi in una società collettivista. Se si suppone che l’impresa non possa più produrre si trasforma una impresa in una burocrazia. Si dice che i sussidi sono solo temporanei e causati da una crisi eccezionale. Ma la tesi non è convincente. Non si sa quanti dovranno essere. Si dice addirittura: tutti quelli che servono. Non si sa fino a quando.

La proprietà dell’impresa è tutt’altro che monolitica. E’ rappresentata da un variegato “parterre” di attori i cui interessi non sempre coincidono: dai risparmiatori, ad investitori istituzionali di tipo diversissimo, a soci “industriali”. Fino ad arrivare ad imprese dove entrano nei “giochi proprietari” anche il sindacato ed altri attori sociali. Non solo, ma anche il sistema di interessi del management non è esattamente sovrapponibile con quello degli azionisti.

Sia i business delle imprese che la società che li “contiene” stanno/devono evolvere. E questa evoluzione non è indipendente, ma è una coevoluzione. Consideriamo, ad esempio, le compagnie di assicurazione. Le loro più nuove e rilevanti aree di business sono la previdenza e la sanità. Ora l’evoluzione di queste aree di business dipende/determina l’evoluzione del sistema di Welfare complessivo.

Le strategie di business non sono necessariamente determinate dal gioco competitivo, ma possono essere ispirate da scelte sociali. Facendosi ispirare non dai competitors, ma dalla società (le nuove istanze sociali, le nuove conoscenze, la nuove speranze) si riescono ad immaginare strategie di business veramente rivoluzionarie. Forse è questo il significato più profondo dell’apertura alla società ed alle sue esigenze: attivare intensi processi di innovazione.

Gli stakeholders non accettano di essere relegati ad un ruolo di controllo formale. Ma cercando di “impicciarsi” sempre di più nella vita delle imprese.
Gli stakeholders costituiscono una ecologia variabile. Infatti, stanno acquisendo sempre più ruolo gli stakeholders “emergenti” che si formano come reazione “emergente” alle scelte strategiche delle imprese.

La natura, che ospita la coevoluzione di business e società, è tutt’altro che infinita. Anzi, si sta dimostrando capricciosa e molto esigente. Quasi non sopporta più l’invadenza di una società come quella industriale e inizia a non essere più in grado di soddisfare esigenze “igieniche” come quelle di materie prime e cibo.

Allora è necessaria un’altra visione del rapporto tra imprese e società. Se, nel passato, l’impresa era un corpo separato dalla società, oggi dobbiamo dire che la società ha invaso l’impresa. E l’impresa la società. L’impresa deve cambiare il suo “mestiere” tradizionale e la società, coerentemente e contestualmente, deve cambiare la sua struttura profonda.

Conseguentemente è necessario recuperare il senso complessivo di “sociale”. Con questo aggettivo non intendiamo qualche parte della società, ma ci riferiamo alla società nel suo complesso.

Se cambia il rapporto tra impresa e società, come abbiamo cercato di esemplificare, allora deve cambiare il concetto di CSR.

In una società così profondamente dinamica, è necessaria una concezione della CSR che possiamo definire “strategica”. Essa vede l’impresa come un attore profondamente immerso in questa società del cambiamento. Contribuisce ed è condizionata dallo sviluppo complessivo della Società.

martedì 7 luglio 2009

Ci sta sfuggendo che ad una domanda fondamentale non stiamo dando una risposta



E’ una piccola seconda tappa verso il nostro Evento di Fondazione …
E propone una domanda fondamentale alla quale stiamo dando una risposta sbagliata.
Una domanda che certamente discuteremo nel nostro Evento di Fondazione. Una domanda che è un ologramma complessivo della crisi.

L’occasione per guidare l’attenzione su questa domanda, banale, ma fondamentale è data da un articolo apparso oggi (7 Luglio 2009) sul Sole 24 Ore, Le ricette nazionali non risanano le banche, a firma di Marco Onado.
Il titolo è: le ricette nazionali non risanano le banche. E’ un articolo lucido, che suggerisce strategie complessive e non “particolari” per risanare il sistema bancario.
Nessuna obiezione su queste strategie, una domanda, però. Supponiamo che le banche siano risanate, fortemente capitalizzate ed accettino di concentrarsi nel servizio alle famiglie ed alle imprese. Ora, perché le cose funzionino, occorre che le imprese producano valore (non solo economico, aggiungo io) per pagare stipendi adeguati (cioè garantire risorse alle famiglie), compensare il servizio delle banche e restituire i soldi che ricevono in prestito.
Ma, ecco la domanda banale, ma essenziale: come facciamo ad essere sicuri che le imprese torneranno a produrre valore?
E’ una domanda alla quale è urgente rispondere, ma alla quale stiamo dando la risposta sbagliata!
Infatti, stiamo, anche esplicitamente, ipotizzando che sarà inevitabile che le imprese torneranno a produrre valore perché, quando la finanza, causa della crisi, sarà risanata, tutto tornerà come prima. Si tornerà ad acquistare e, grazie a questo, le imprese torneranno a produrre valore.

E’ un’ipotesi che non sta in piedi! E’ una risposta sbagliata.
Basta leggere il pezzo di Giampaolo Fabris su Affari e Finanza del 6 Luglio 2009: Il paradosso dei saldi. Oggi convengono di più, ma attirano meno. E’ un ologramma della risposta giusta. Il vero problema è che i prodotti attuali sono sempre meno interessanti e se ne comprerà sempre di meno valutandoli sempre meno. Di più: i sistemi di produzione, di trasporto e distribuzione non sono più sostenibili. Questo significa che l’attuale sistema delle imprese può ristrutturarsi quando vuole, diventare competitivo quanto vuole, ma, piano piano, sta perdendo di significato. Le imprese che producono i prodotti di oggi con i sistemi produttivi di oggi dovranno essere sempre meno. Dovranno nascere nuove imprese che produrranno prodotti diversi con sistemi produttivi, di trasporto e di distribuzione altrettanto diversi.

Torniamo alle banche. Come potranno le banche risanate non tornare nei guai? Dovranno imparare a capire quali saranno le vecchie imprese che potranno continuare a vivere, accompagnare ad una onorevole chiusura le imprese che non potranno farcela. E, soprattutto, supportare la nascita di nuove imprese.
Se questa è la situazione, allora, esortare le banche a tornare ad occuparsi di imprese e famiglie rischia di essere troppo generico e, quindi, retorico. Occorre spiegare alle banche come occuparsi diversamente delle imprese. Fornire loro una nuova cultura di valutazione, di stimolo alla progettualità strategica. Questa nuova cultura ancora non esiste! Non è che esiste e vi sono i cattivi che non la vogliono usare, gli ignoranti che non la conoscono e i maestri che vanno incentivati ad insegnarla. E’ necessario un grande progetto di ricerca per svilupparla. Noi abbiamo fatto un passo in questa direzione. Ne parleremo nel nostro Evento di Fondazione.

...continua

Ce ne stiamo accorgendo a colpi di crisi ricorrentesi in ogni dimensione dell'umano. E' evidente che dovunque guardiamo c'è qualcosa che, gravemente, non va: lo sviluppo economico, la povertà, il rapporto con la natura, la soddisfazione sul lavoro e le profonde esigenze di realizzare una vita degna... E allora vogliamo smetterla di denunciare il passato? Sta diventando stucchevole cercare l'ennesimo cantuccio della stanza della società industriale e scoprire ancora una volta l'accumularsi di una polvere. E' il momento di lasciar riposare per un po' la denuncia e la protesta anche perché, se siamo onesti, dobbiamo chiederci: ma noi dove eravamo in questi anni?

Vivevamo su Marte e improvvisamente siamo tornati sulla terra ed abbiamo scoperto che quegli inetti di terrestri, dopo la nostra denuncia, non aveva fatto nulla. E tocca ancora a noi risvegliare le coscienze? Certo che no! Noi abbiamo vissuto immersi in questa società. Sono anche le nostre azioni che hanno mantenuta chiusa la stanza. Lasciando accumulare e incancrenire polvere. Viene quasi da dire: l’accumularsi e l’incancrenirsi ci fa comodo perché la nostra unica competenza era il contestare. Visto che sul costruire abbiamo dato tutti pessima prova.
E non si dica che qualche potere forte, da qualche parte ha impedito che le nostre folgoranti idee liberassero la stanza dalla polvere dell’ingiustizia, del privilegio … Quelli che sembrano poteri forti lo sono solo di fronte alla nostra incapacità di costruire alternative.
Cara e vecchia società di tutti noi, dunque. Che ci ha permesso di superare secolari infelicità … Certo non tutte, certo non a tutti, certo non ugualmente, ma molto.
Cara e vecchia società dalla quale ora dobbiamo allontanarci con un pizzico di nostalgia. Portandoci dentro lo zaino che accompagna ogni viaggio tutto quello che di buono ha prodotto.
E con il passo che diventa sempre più baldanzoso a mano a mano che diventa chiaro il luogo, la nuova società verso la quale siamo diretti ..
Ma verso quale luogo vogliamo dirigerci? Quale nuova società vogliamo costruire?
Noi certo non lo sappiamo! Sappiamo solo come fare a costruirla!

Allora la nostra proposta è strana. Non abbiamo soluzioni, linee politiche, idee originali. Ma un metodo con il quale generarle.
Primo passo di questo metodo: cambiamo i linguaggi. Secondo usiamo questi nuovi linguaggi per progettare insieme .. Accidenti, mi rendo conto che mi sto avventurando in un sentiero accidentato …
Allora provo con una storiella. Pensiamo di indossare occhiali verdi e di dover dipingere una parete di un nuovo colore: il verde ci ha seccati. Ai nostri piedi abbiamo una vasta gamma di barattoli di vernice. Ma tutti i colori ci sembrano gradazioni del verde. E, così, piano piano ci sembra inutile ridipingere una stanza di un nuovo colore che potrà essere solo una gradazione di verde. Accidenti ai poteri forti che ci costringono a dipingere sempre e solo di verde …
Ma poi arriva qualcuno che ci convince che un certo barattolo contiene il rosso. Ma apparirà rosso solo quando lo stendiamo sulla parete … Così, spinti da nuova fiducia e dalla voglia di avere nuova fiducia, cominciamo a dipingere. Ma, anche dopo averlo steso sulla parete, quel colore continua ad essere l’ennesima gradazione del verde. Allora la nostra collera e massima: certo solo un grande complotto di qualche potentato molto potente ci può costringere a naufragare in un mare di verde …
Maledetti poteri forti .. .
Così attiviamo un Gruppo antiverde. Che, innanzitutto, continua ossessivamente a dimostrare che tutto è di quel verde che, oramai invece di speranza, sta a segnalare schifezza. E poi cerca di buttare via tutti i barattoli …
Cosa significa partire dai linguaggi e dal metodo per usarli?
Significa togliersi gli occhiali verdi. E riuscire così a scoprire che tutti i barattoli sono effettivamente di mille colori. Riuscendo a vedere mille colori rinasce davvero la speranza di poter dipingere diversamente la stanza. Ma non possiamo stare senza occhiali ed ogni tipo di occhiale, anche il più sofisticato, altera i colori … Anche il rosso più sfavillante sarà, poi, sempre, ideologicamente, rosso … Ed allora che fare? Impariamo a cambiare occhiali quando vogliamo vedere cose diverse. Ma, poi, come dipingiamo quella stanza? Inevitabilmente tutti insieme con occhiali diversi. Perché ognuno può portare un solo tipo di occhiali per volta. E per fare della stanza un capolavoro, sono necessari tutti i colori. Quando il dipinto a mille mani sarà finito potremmo vedere un miracolo che piacerà a tutti e che tutti potranno vederlo in modo sempre diverso. Basterà indossare gli occhiali degli altri e se ne scoprirà un bellezza diversa.
Allora il nostro programma è molto semplice. Apparirà forse banale e ininfluente: diffonderemo nuovi linguaggi ed attiveremo gruppi progettuali che li useranno per progettare i mille aspetti di una nuova società.
I linguaggi sono i modelli e le metafore che nell'ultimo secolo, provenendo sostanzialmente dalle scienze della natura, si sono aggiunti a quelli tipici della società industriale.
Il metodo con il quale li useremo sarà Sorgente Aperta …
Ma perché “balbettanti”? Perché nel progettare un nuovo mondo ci rendiamo conto che il primo esprimersi non sarà che un balbettio. E, perché “poietici”? Perché il balbettio dovrà essere fecondo. Si trasformerà certamente in storie che cominceranno ad essere vissute.
Allora anche questo manifesto è un balbettio poietico? Certamente. Speriamo di doverlo riscrivere al più presto meno balbettante e più fecondo.