lunedì 26 ottobre 2009

Lettera Aperta a Giuseppe Morandini

Egregio Sig. Morandini,
ho appena terminato di leggere il suo appassionato intervento sullo speciale “Piccole imprese” del Sole 24 ore di Sabato 24 ottobre 2009.
Mi permetto un piccolo contributo. Piccolo nel senso di corto, forse un po’ più grande come contenuto. In sintesi: non disponiamo delle conoscenze e delle metodologie necessarie per uscire dalla crisi. Siamo come chirurghi che non abbiano fatto l’esame di anatomia. Ed allora è urgente procuracele, queste conoscenze e metodologie.

Mi spiego partendo da alcuni “basics” che sembrano banali, ma …
La imprese devono fornire cose che interessano e servono.
Quando forniscono cose che interessano e servono molto, prosperano molto. Quando forniscono cose che interessano e servono meno, prosperano meno.
Quando forniscono cose che interessano e servono molto sopportano tutti i disagi (fisco, energia, burocrazia). A mano a mano che producono cose che interessano e servono meno, sopportano sempre meno, fino a soccombere ad ogni stormir di fronde.

Ho proposto questa carrellata di basics perché è ragionando su di essi che si arriva ad una visione un po’ diversa da quella prevalente sulla crisi. La crisi attuale non è stata causata da finanzieri e banchieri banditi, incoscienti, pavidi. Certamente molti di loro non sono stati stinchi di santi. Anzi, si sono comportati da bambini viziati e capricciosi. Ma, anche quando li trasformassimo in finanziari e banchieri altruisti, saggi, financo coraggiosi, se continuassimo a produrre cose che interessano sempre meno e servono sempre meno, non avremmo risolto la crisi.

Sì, la crisi ha una ragione sola: il sistema industriale che ha generato la società industriale deve ristrutturarsi profondamente perché, da un lato, le esigenze, i desideri delle persone sono cambiati. Desiderano altre cose, altri oggetti, altre case, altre città. Lo stile di vita proposto dalla società industriale è stato “splendido splendente”, ma ora sta venendo in uggia: si desidera qualcosa di altro.
Da un altro lato, anche se le persone della terra non desiderassero altre cose e continuassero a delegare la loro auto realizzazione al prossimo paio di scarpe, garantendo la crescita di questo sistema industriale, ci si scontrerebbe con la ribellione della natura. Per essere praticissimi e per non fare i soliti discorsi di un ambientalismo solo interessato a combattere la libera impresa: se tutti i sei miliardi di persone desiderassero così intensamente (da remunerare adeguatamente chi le produce) lo stesso numero di paia di scarpe che possediamo io e lei, non vi sarebbero vacche sufficienti per fornire tutto il cuoio necessario. Al di là della metafora stupidotta: anche se tutti lo desiderassero (e non è così!)non vi sono le risorse per diffondere a tutto il mondo lo stile di vita occidentale.

Allora la soluzione della crisi sta in un lavoro di riprogettazione della identità delle imprese e del sistema industriale nel suo complesso. Diamo un nome a questo riprogettare. Si chiama “fare strategia”.
Ecco quelle che mancano sono le conoscenze e le metodologie per fare strategia.

Mancano: verbo troppo generico. Occorre specificare. Esiste certamente un corpo di conoscenze che servono a fare strategia. Ma, oggi, banchieri e imprenditori ne usano pochissime di quelle esistenti. Se prende in considerazione i business plans (che sono i documenti dove si scrive quale nuova identità dell’impresa si vuole costruire e che, purtroppo, descrivono solo come l’impresa stia tentando disperatamente di conservare l’identità del passato) vedrà che essi usano strumenti vecchissimi (la SWOT analysis, ad esempio) per descrivere l’attrattività del business, oppure invecchiati (il modello di Porter , ad esempio, in versione, per di più, edulcorata) per descrivere la posizione competitiva dell’impresa.

Esiste certamente un corpo di conoscenze che servono a fare strategia, ma, anche se imprenditori e banchieri le usassero tutte, invece di usarne solo un piccolo sotto insieme, non basterebbero ancora. La “scienza” della strategia è, come altri ambiti disciplinari, in profonda crisi. E non è certo solo un mio giudizio, ma è il giudizio di tanti tra i più grandi esperti internazionali. Ed è un giudizio suggerito dai fatti: la strategia d’impresa è una “scienza” giudicata inutile, perché non viene né appresa, né usata.
Attenzione non sto parlando delle conoscenze e delle competenze economiche, sulle quali pure ci sarebbe molto da ridire. Sto parlando di quelle conoscenze e competenze che servono a capire quanto la proposta di un’impresa è ancora “vitale” e come si può renderla vitale se tale non lo è più.

Allora nasce evidente una nuova urgenza che sta prima e dietro a tutte le altre: è necessario sviluppare e poi usare nuove conoscenze e competenze di strategia d’impresa.
Noi abbiamo fatto un primo passo in questa direzione e stiamo cercando con diversi strumenti ed eventi di mettere a disposizione del sistema economico italiano le nostre “scoperte”.

La presente News letter è uno di questi strumenti. Il nostro obiettivo è che, attraverso di essa, si possa non solo diffondere una nuova cultura strategica. Ma anche avviare un nuovo dibattito sulla crisi e sul modo di uscirne. Per questo stiamo inviando questa nostra News letter a tutta la Business Community italiana. E la pubblichiamo nei nostri blog: www.meconsulting.org e http://balbettantipoietici.blogspot.com/. Spero in un a sua risposta a questa mia lettera aperta. Sarà nostra cura pubblicarla nei nostri blog e farne oggetto di un numero della nostra News letter.

Un altro strumento è costituito da un Workshop che si terrà a Milano il giorno 10 novembre presso l’Hotel Michelangelo in Via Scarlatti, 33. Spero in una sua presenza.

Con stima, un cordiale saluto
Francesco Zanotti

venerdì 23 ottobre 2009

Pro o contro il posto fisso

Il dilemma è pendolante: posto fisso o flessibilità?
E il pendolo, come è dovere di tutti i pendoli fare, oscilla tra un estremo e un altro … Con grandi rimescolamenti di posizioni, come si vede in questi giorni.

Quando il pendolo ... pendola … significa che nessuna delle due posizioni estreme è soddisfacente. E non lo è neanche la posizione intermedia (di equilibrio) che non soddisfa nessuno dei due estremi che cercano, ad ogni stormir di fronda, di riportare il pendolo a casa loro.

Allora è necessario guardare altrove.
Per farlo inizio con una domanda che potrebbe sembrare a favore dell’estremo flessibilità”, ma non lo è!
La domanda è la seguente: chi propone il posto fisso a chi assegna l’onere di garantirlo? Alle imprese? Be’ non funzionerebbe. Si può anche impedire alle imprese di licenziare, ma se, quando è il momento di pagare gli stipendi, le imprese non hanno i soldi (in genere perché le banche non glieli danno) che se ne fanno le persone di un posto fisso che non significa stipendio fisso? Allora, invece di posto fisso occorrerebbe garantire stipendio fisso (sono esattamente la stessa cosa se l’impresa dispone di risorse infinite o può procurarsele quando serve come lo Stato). L’onere è a carico dello Stato? E lo Stato che fa? Presta i soldi alle imprese? O costringe le banche a finanziare le imprese? Oppure cosa altro? Forse qualcuno pensa che basta costringere i capitalisti cattivoni a guadagnare un po’ meno e le imprese possono garantire automaticamente stipendio fisso.
Mi sembra una domanda rilevante che non sento posta ed alla quale, ovviamente, non trovo risposta.

Ma continuiamo, con un'altra osservazione che sembra ancora portare mulino all’estremo pendolare della flessibilità, ma non è così. E convinco il lettore affermando che la flessibilità, così come viene intesa, lascia aperte domande senza risposta ancora più inquietanti …
L’osservazione: ma non è vero che il posto fisso (ripeto: è interessante lo stipendio fisso e non il posto fisso. E le cose non coincidono) rende la gente più sicura. Vi è un crescente numero di persone che preferisce garantirsi personalmente il futuro piuttosto che delegarlo, lasciarlo, impotentemente, in mano ad altri. Per costoro il posto fisso è un non senso. Come se legandoli al posto fisso li si legasse ad una prigione dove si dipende in tutto e per tutto dagli altri. Mica tutti sono così, ma ve ne è un numero crescente. Obiezione, ma il posto fisso mica è un obbligo. Certo che no! Ma questa posizione non solo va evidentemente accettata, ma è necessario scoprirne la cifra profetica …

Allora: viva la flessibilità? Un momento: quale flessibilità? Una flessibilità seria ha due “corni”. E si una flessibilità in uscita, cioè la flessibilità di buttare fuori. Ma deve anche prevedere una flessibilità in ingresso La possibilità di “buttare dentro” in un posto dove possono pagare quello stipendio che l’azienda che ha buttato fuori non può più pagare.
Ma allora abbiamo spostato il problema: dalla singola impresa, al sistema delle imprese. Perché la flessibilità (che deve essere equilibratamente sia in entrata che in uscita) vi devono essere imprese che assumono (e possono pagare loro lo stipendio) chi vien licenziato … Ma il sistema delle imprese non può garantire, sia pur collettivamente e non individualmente, lo stipendio fisso.


Allora, credo proprio che il dibattito sul posto fisso sia un “non sense”. Non sia che una ulteriore manifestazione di un più grande dibattito pro o contro la libera impresa che, francamente, ha proprio stufato. Si porta dietro la muffa, oramai ammuffita, degli anni ’70.

E' il momento di provare a guardare altrove, oltre la flessibilità e il posto fisso ..
In che situazione stiamo vivendo? Siamo di fronte al finire di un modello di società ed abbiamo il dovere di costruirne un altro. Nello specifico: è necessario progettare un nuovo sistema industriale ed un nuovo sistema economico. Il tentativo di conservare, come purtroppo si sta facendo, il vecchio sistema industriale ed economico in attesa che parta una ripresa che permetta di non cambiare nulla è fallimentare.

In questa contingenza storica cambiano i ruoli all’interno dell’impresa. Il lavoratore non può più essere solo esecutore, ma deve diventare risorsa progettuale per rinnovare continuamente l’impresa. Cambiano i ruoli,
non quando si produce, ma quando si progetta il futuro. La progettazione del futuro non può essere solo onere dell’imprenditore. In questa contingenza storica la vera “cosa” (guardate: non abbiamo neanche un nome per definirla) che garantisce tutti è un patto progettuale. Detto diversamente: l’impresa non deve più essere solo una gerarchia produttiva, ma ,anche e prima, una comunità progettuale. Ecco che abbiamo dato un nome alla “cosa”: comunità progettuale.
Una gerarchia esecutiva quando occorre cambiare il mondo, non può garantire nulla a nessuno. Una comunità progettuale è l’unico soggetto in grado di auto garantirsi solidalmente, il futuro.

E’ utopia l’idea di una comunità progettuale? Se sembra così, allora siamo sulla buona strada perché i grandi cambiamenti ( e Dio solo sa quanto di grandi cambiamenti abbiamo bisogno) vengono innescati solo da utopie. E poi è una utopia già in atto. Mille piccole imprese sono sempre stati comunità solidali. Oggi devono diventare comunità progettuali, ma il passo è meno assurdo di quello che sembra. Mille persone, quelle che considerano il posto fisso un a prigione, non aspettano altro che si offrano loro comunità progettuali che certamente non vedrebbero come prigioni.
Esiste anche una nuova cultura d’impresa che potrebbe stimolare e supportare l’affermarsi di comunità progettuali. Non è certo la cultura della competitività e della leadership. E’ la cultura dei sistemi emergenti.

giovedì 15 ottobre 2009

Non a caso Elinor Ostrom si è fermata solo lì ...

Ad Elinor Ostrom è stato assegnato il Nobel per l’economia. Significativo, profondamente descrittivo è il titolo di un suo pezzo pubblicato il 13 ottobre 2009 sul Sole 24 ore: Innovazione dal basso. Ella sostiene che “Dobbiamo aprire il settore pubblico all’imprenditorialità ed all’innovazione”. E poi “I cittadini spesso
trovano nuovi modi di mettere insieme i servizi usando un mix di talenti e risorse locali”.
Sono tesi certamente da condividere. Che oggi, altrettanto certamente, merita il Nobel per l’economia. Sono tesi che andrebbero attentamente studiate da tutti i Governanti e tutti gli economisti che stanno progettando grandi riforme dall’alto. E da tutti gli strateghi d’impresa che non hanno ancora capito che la strategia non può nascere da un freddo processo progettuale curato da specialisti.
Ma non è un caso che una economista si sia fermata solo lì …
Non intendo certo sminuire il suo lavoro. Voglio solo osservare che s Elinor Ostrom si è fermata alla metà di un guado dove, certamente, pochi economisti sono giunti, ma che molti altri hanno già superato.
Sono arrivati sull’altra sponda, dalla quale stanno esplorando nuovi orizzonti, tutti coloro che hanno esplorato e studiato i sistemi complessi. Tutti costoro sanno che i sistemi complessi vengono generati da processi emergenti, dal basso. Lo sanno da decenni. Hanno iniziato a intuirlo da quando si è scoperto il ruolo attivo dell’osservatore dalla meccanica quantistica. Hanno, poi, precisato questa intuizione in mille dettagli, fino ad arrivare alla comprensione dei meccanismi dell’auto poiesi e dell’autoreferenzialità che presiedono alla formazione dei sistemi complessi. Fino alla scelta del livello mesoscopico (tra macro e micro) come luogo elettivo per leggere il formarsi di un sistema complesso. Fino alla proposta di Sorgente Aperta, un nuovo metodo di Governo, per stimolare e gestire processi emergenti.
Gli economisti sono rimasti all’intuizione (verificata “sperimentalmente”, dicono loro) che è possibile il governo dei sistemi umani dal basso. Cioè, una scoperta che la fisica quantistica aveva già reso disponibile negli anni ’20. E non stanno usando tutto il resto che abbiamo sommariamente citato prima. Tanto meno il nuovo metodo di governo che abbiamo definito Sorgente Aperta.
Questo isolarsi degli economisti è dovuto alla convinzione che la conoscenza sia strutturata in discipline dai confini giudicati (forse anche voluti) rigidi ed invalicabili. Una conoscenza che coltiva il mito dell’esperto che, forte della “astrusità” della sua disciplina, si auto costruisce un ruolo di “sacerdote del futuro”.
Con in mente questo modello di conoscenza, non si riesce a cogliere la portata rivoluzionaria di una scienza dei sistemi (sistemica), capace di stare al fondo, di ascoltare e fecondare ogni ambito disciplinare. Così si rischia che mille specialisti di mille discipline ripercorrano le stesse strade, senza cercare di imparare da coloro che davvero stanno già sull’altra sponda del guado che tutte le discipline dovranno inevitabilmente superare.
L’economia è, davvero, un esempio eclatante di questa visione della conoscenza. Nei mesi scorsi si è scatenata una battaglia sulla “serietà” o meno dell’economia. Una scienza sulla quale tutti facciamo affidamento, ma che viene messa in discussione perché le si addebitano mille colpe. A queste colpe gli economisti rispondono con una diffusa levata di scudi … Io credo che, invece di accuse e difese, sarebbe il caso di provare a esplorare i fondamenti epistemologici dell’economia. Li si troverebbe simili a quelli della meccanica classica. E, così, si scoprirebbe che gli economisti, mediamente, salvo eccezioni che meritano davvero il Nobel, non hanno neanche iniziato a guadare il fiume che permette di lasciare la landa oramai sfruttata della società industriale che nella meccanica classica ha il suo ideale epistemologico. E si proverebbe a suggerire agli economisti di guardare dall’altra parte del fiume che hanno davanti. Dove vi è chi sta loro tendendo una mano fatta di nuovi modelli e metafore per rinnovare la sua missione di servizio allo sviluppo.
Per rompere gli steccati tra discipline che si stanno inviluppando in sterili autoreferenzialità e favorire una sempre più feconda trans disciplinarità, stiamo immaginando un Expo della Conoscenza nel quale vengano “esposte”tutte le conoscenze che nel secolo scorso hanno superato la visione del mondo propria della scienza “classica” (che ha come modello di conoscenza e di intervento la meccanica classica). Non solo vengano esposte, ma si cerchi anche di capirne l’utilizzabilità nelle diverse discipline per renderle strumenti per costruire una nuova società che superi l’attuale crisi della società industriale.
Proviamo ad immaginare alcuni dei possibili risultati che l’Expo della Conoscenza potrebbe produrre per l’economia:
  •  l’imprenditore come operatore quantistico
  •  la competizione auto costruita
  •  i settori e i distretti industriali come meso strutture
  •  il fare strategia come creazione sociale di conoscenza
  •  le regole come sintesi ex-post di processi emergenti
  •  il Governo dell’economia come attivazioni e gestione di processi emergenti
  •  le banche e le istituzioni finanziarie come erogatrici non solo di risorse finanziarie, ma anche di         linguaggi e metodologie progettuali
  •  le comunità locali come fonti delle risorse cognitive fondamentali
  •  le persone come nodi protagonisti delle reti sociali di cui è fatta un’impresa
  •  la sicurezza come creazione di una comunità di “nodi protagonisti”.
Risultati per l’economia? In realtà pensiamo che dall’Expo della Conoscenza nascerà una vera e propria proposta per costruire quello sviluppo dal basso che alcuni economisti sono riusciti solo a vedere.

lunedì 5 ottobre 2009

Tragedie ed autoreferenzialità


Quando accade una tragedia vi sono delle costanti. Era prevedibile. Era una previsione fatta e nota: tutti sapevano. E’ stata una previsione disattesa: nessuno ha fatto nulla.

A questo stato di cose disastroso, vi sono due modalità di reazione civile.

La prima è: dalli al politico, scemo o corrotto. La tragedia diventa un’occasione per rinfocolare la battaglia politica. Sembra quasi che la tragedia sia vissuta come un’opportunità per sferrare la stangata decisiva all’avversario ...
Qualche volta la stangata ha effetto e si cambiano i politici. Ma anche quelli nuovi ricadono negli errori precedenti …
Allora si scatena il mito della società civile: tutti i politici sono scemi e corrotti. Sostituiamoli con la società civile ... E così quando i membri della società civile diventano politica, iniziano a comportarsi come i vecchi politici.
Non se ne esce! Allora?

Allora occorre guardare da un’altra parte. La seconda interpretazione. Porta ad immaginare una soluzione. Ma …

Usiamo la metafora del sistema auto referenziale.
Cosa è un sistema autoreferenziale? E’ un sistema i cui componenti hanno come riferimento fondamentale loro stessi. E hanno come obiettivo quello di occupare il massimo spazio possibile all’interno del sistema. Allora, gli stimoli esterni (ad esempio le previsioni sulle tragedie) sono considerati occasioni per ridiscutere gli equilibri interni. Si giudicano questi stimoli in base alla loro potenzialità di ridiscussione degli equilibri esistenti. I festini di Berlusconi hanno maggiore potenzialità di ridiscutere gli equilibri del sistema politico di previsioni di tragedie che, come tutte le previsioni, possono anche non accadere.
Un sistema democratico di tipo rappresentativo genera necessariamente un sistema politico autoreferenziale. Cioè chiunque sia eletto, si comporterà auto referenzialmente. Ripeto: considerando gli eventi della società come occasione di ridiscussione degli equilibri interni.

Il momento delle elezioni “apre” il sistema che considera, questa volta, la società come riferimento fondamentale. Ma l’apertura dura giusto il tempo delle lezioni. Poi, tutto torna come prima. Quello che accade all’interno del sistema politico è molto più interessante di quello che accade fuori. Quando accade fuori è guardato solo e soltanto se si pensa possa aiutare a sconfiggere l’avversario.

Allora la soluzione è banale: occorre aprire nel continuo e nel contingente il sistema politico.
Come fare? E qui viene il difficile. Perché la soluzione è radicale. Cambia la logica del fare politica …
Ma, a questo punto, interrompo il discorso. Troppo difficile da raccontare. Troppo difficile da ascoltare. Non complicato, anzi molto semplice. Ma non ci sono le condizioni dell’ascolto. Troppo intrigante è sbrigarsela con invettive contro i politici scemi o corrotti. Scarica la coscienza e l’ansia. Ma certo non risolve il problema. Pubblicherò una prima proposta su come si possono evitare i danni dell’autoreferenzialità solo e soltanto se questo primo articolo scatenerà un dibattito. Altrimenti: alla prossima tragedia.
Francesco Zanotti

...continua

Ce ne stiamo accorgendo a colpi di crisi ricorrentesi in ogni dimensione dell'umano. E' evidente che dovunque guardiamo c'è qualcosa che, gravemente, non va: lo sviluppo economico, la povertà, il rapporto con la natura, la soddisfazione sul lavoro e le profonde esigenze di realizzare una vita degna... E allora vogliamo smetterla di denunciare il passato? Sta diventando stucchevole cercare l'ennesimo cantuccio della stanza della società industriale e scoprire ancora una volta l'accumularsi di una polvere. E' il momento di lasciar riposare per un po' la denuncia e la protesta anche perché, se siamo onesti, dobbiamo chiederci: ma noi dove eravamo in questi anni?

Vivevamo su Marte e improvvisamente siamo tornati sulla terra ed abbiamo scoperto che quegli inetti di terrestri, dopo la nostra denuncia, non aveva fatto nulla. E tocca ancora a noi risvegliare le coscienze? Certo che no! Noi abbiamo vissuto immersi in questa società. Sono anche le nostre azioni che hanno mantenuta chiusa la stanza. Lasciando accumulare e incancrenire polvere. Viene quasi da dire: l’accumularsi e l’incancrenirsi ci fa comodo perché la nostra unica competenza era il contestare. Visto che sul costruire abbiamo dato tutti pessima prova.
E non si dica che qualche potere forte, da qualche parte ha impedito che le nostre folgoranti idee liberassero la stanza dalla polvere dell’ingiustizia, del privilegio … Quelli che sembrano poteri forti lo sono solo di fronte alla nostra incapacità di costruire alternative.
Cara e vecchia società di tutti noi, dunque. Che ci ha permesso di superare secolari infelicità … Certo non tutte, certo non a tutti, certo non ugualmente, ma molto.
Cara e vecchia società dalla quale ora dobbiamo allontanarci con un pizzico di nostalgia. Portandoci dentro lo zaino che accompagna ogni viaggio tutto quello che di buono ha prodotto.
E con il passo che diventa sempre più baldanzoso a mano a mano che diventa chiaro il luogo, la nuova società verso la quale siamo diretti ..
Ma verso quale luogo vogliamo dirigerci? Quale nuova società vogliamo costruire?
Noi certo non lo sappiamo! Sappiamo solo come fare a costruirla!

Allora la nostra proposta è strana. Non abbiamo soluzioni, linee politiche, idee originali. Ma un metodo con il quale generarle.
Primo passo di questo metodo: cambiamo i linguaggi. Secondo usiamo questi nuovi linguaggi per progettare insieme .. Accidenti, mi rendo conto che mi sto avventurando in un sentiero accidentato …
Allora provo con una storiella. Pensiamo di indossare occhiali verdi e di dover dipingere una parete di un nuovo colore: il verde ci ha seccati. Ai nostri piedi abbiamo una vasta gamma di barattoli di vernice. Ma tutti i colori ci sembrano gradazioni del verde. E, così, piano piano ci sembra inutile ridipingere una stanza di un nuovo colore che potrà essere solo una gradazione di verde. Accidenti ai poteri forti che ci costringono a dipingere sempre e solo di verde …
Ma poi arriva qualcuno che ci convince che un certo barattolo contiene il rosso. Ma apparirà rosso solo quando lo stendiamo sulla parete … Così, spinti da nuova fiducia e dalla voglia di avere nuova fiducia, cominciamo a dipingere. Ma, anche dopo averlo steso sulla parete, quel colore continua ad essere l’ennesima gradazione del verde. Allora la nostra collera e massima: certo solo un grande complotto di qualche potentato molto potente ci può costringere a naufragare in un mare di verde …
Maledetti poteri forti .. .
Così attiviamo un Gruppo antiverde. Che, innanzitutto, continua ossessivamente a dimostrare che tutto è di quel verde che, oramai invece di speranza, sta a segnalare schifezza. E poi cerca di buttare via tutti i barattoli …
Cosa significa partire dai linguaggi e dal metodo per usarli?
Significa togliersi gli occhiali verdi. E riuscire così a scoprire che tutti i barattoli sono effettivamente di mille colori. Riuscendo a vedere mille colori rinasce davvero la speranza di poter dipingere diversamente la stanza. Ma non possiamo stare senza occhiali ed ogni tipo di occhiale, anche il più sofisticato, altera i colori … Anche il rosso più sfavillante sarà, poi, sempre, ideologicamente, rosso … Ed allora che fare? Impariamo a cambiare occhiali quando vogliamo vedere cose diverse. Ma, poi, come dipingiamo quella stanza? Inevitabilmente tutti insieme con occhiali diversi. Perché ognuno può portare un solo tipo di occhiali per volta. E per fare della stanza un capolavoro, sono necessari tutti i colori. Quando il dipinto a mille mani sarà finito potremmo vedere un miracolo che piacerà a tutti e che tutti potranno vederlo in modo sempre diverso. Basterà indossare gli occhiali degli altri e se ne scoprirà un bellezza diversa.
Allora il nostro programma è molto semplice. Apparirà forse banale e ininfluente: diffonderemo nuovi linguaggi ed attiveremo gruppi progettuali che li useranno per progettare i mille aspetti di una nuova società.
I linguaggi sono i modelli e le metafore che nell'ultimo secolo, provenendo sostanzialmente dalle scienze della natura, si sono aggiunti a quelli tipici della società industriale.
Il metodo con il quale li useremo sarà Sorgente Aperta …
Ma perché “balbettanti”? Perché nel progettare un nuovo mondo ci rendiamo conto che il primo esprimersi non sarà che un balbettio. E, perché “poietici”? Perché il balbettio dovrà essere fecondo. Si trasformerà certamente in storie che cominceranno ad essere vissute.
Allora anche questo manifesto è un balbettio poietico? Certamente. Speriamo di doverlo riscrivere al più presto meno balbettante e più fecondo.