lunedì 7 dicembre 2009

Dove vanno le energie?


Caro Aleph V,
non riesco a capacitarmi di quanto vedo accadere in Italia, e mi rivolgo a te, per dialogare...come è che la culla del Rinascimento, terra di passaggio di popoli ed idee, di grandi innovatori, artisti e progettisti, che spesso si vanta di detenere una quota rilevantissima del patrimonio culturale mondiale, mostri questa decadenza?
Ho saputo che sabato scorso migliaia di persone si sono spostate per raggiungere Roma, si dice, auto organizzate, e colorate di viola. Obiettivo chiaro, le dimissioni del presidente del consiglio. Lo sai, di queste cose non mi curo in genere, e quindi non è il commento dell'attualità (loro) che mi interessa...quanto la profondità di quanto avviene.
Non che il Paese sia in forma...ma allarghiamo lo sguardo e puliamo la mente, e chiediamoci...perché tutte queste energie non vengono messe nel progettare soluzioni più che nel prendersela contro Uno? Pur potente, potentissimo...potrà davvero essere lui la causa di tutti i mali, e potrebbe, ammesso che sia possibile, la sua rimozione da quella carica portare al massimo bene?
Non so...migliaia di persone, intelligenze, risorse, conoscenze, sottoimpiegate, arrabbiate...se non manipolate oppure strumentalizzate. Io non lo so, l'attualità non mi interessa... ma, di certo, tutto questo non ha avuto nessun effetto, non han prodotto nessun cambiamento significativo in nulla – e lo sapevano-
… forse una cosa dovremmo dirla e forse anche farla..
Incentivare la costruzione di soluzioni e di proposte innovative che tolgano il paese ed il sistema mondiale fuori dai pasticci.. .in questi giorni, un grande vertice sull'ambiente si tiene a Copenaghen... appunto... l'uomo e la natura sono in grande conflitto, ma l'uno non può fare a meno dell'altra (forse la natura può invece fare a meno dell'uomo), e, poi, la più grande crisi economica mondiale... e son convinti davvero che sia solo un problema finanziario e di regole? Che bastino incentivi e regole nuove...? Oppure un repulisti della corrotta (si dice sempre così) classe dirigente finanziaria e politica...?
Non so..forse è bene che si capiscano che le dimensioni di analisi devono essere più profonde...cosa l'economia deve produrre, per chi e come? Cosa e come distribuire i beni e la ricchezza? Come governare un mondo intero abitato da miliardi di persone molto diverse tra loro per cultura, storia, risorse e desideri? Quale senso alla vita delle persone..? Forse queste sono domande a cui val l pena rispondere e su cui investire tempo ed energie...perché vedo quel paese oscillare tra il viola ed il grigio? Non so...perché anche chi non protestava queste domande non se le pone..e di certo non ha le risposte....ma non capiscono che al di là della riduzione dei costi (ovvero spesso dei licenziamenti) il sistema economico nazionale...e poi europeo e poi mondiale...non ha una direzione sensata? Ed, infine, non si accorgono che tutto questo è nelle loro mani e, prima ancora, nelle loro menti?
Occorre che si faccia qualcosa di profondo e positivo, per rivitalizzare le persone, la società... loro stessi sapranno poi trovare la migliore via di uscita.
un abbraccio e spero di incontrarti presto.
Un saluto da lontano,
Aleph III

martedì 1 dicembre 2009

Cambiare davvero:ci vuole un fisico... bestiale



Ieri, sulla Repubblica, è apparso una lettera aperta di Celli, attuale direttore generale della Luiss, a suo figlio appena laureato, o meglio a tutti i "figli", invitandolo, dopo aver passato in rassegna lo stato di estremo degrado del nostro paese, a lasciare l'Italia per trovar fortuna altrove.
Il giorno prima, sul Messaggero, Romano Prodi affrontava, in modo meno esplicito ma altrettanto drammatico, il tema della sfiducia nel futuro dell'Italia, a partire dalla rassegnazione per un destino diverso del Sud Italia e dello stato dell'Università.

I commenti su Celli, di vario tono, sono stati numerosissimi (quasi 2000 ad oggi), ma credo che anche Prodi abbia generato un discreto dibattito, anche se non tracciato in rete.
Lasciatemi commentare due aspetti che accomunano, secondo me non a caso, queste prestigiose analisi: l'università e il futuro del paese.

L'università era un punto di snodo, una "transizione di fase", come mi ricorda un caro amico (che non cito, non perchè non meriti, ma per non turbare il suo desiderio di discrezione). Tale snodo ha perso di significato, almeno per la nostra società. Ieri, rappresentava un ingresso ad una mondo in evoluzione, oggi, più nulla: forse, un passaporto per l'ingresso in un altro paese, dove la nostra conoscenza ha ancora un valore. E', ahinoi, una spietata e lucida analisi.
Poi, c'è la rassegnazione, totale, da parte di Celli, preoccupata, da parte di Prodi, ma entrambi tradiscono poca fiducia nel futuro.
Nella storia dell'umanità, le giovani generazioni sono sempre state una "assicurazione per il futuro", ribellandosi, facendo errori, ma mai piegandosi acriticamente alle volontà dei padri.

Oggi, come ieri, le istituzioni (in primis i giornali) sono in mano ai vecchi, quelli che, per definizione, non possono e non vogliono cambiare, laddove giovani generazioni combattono in silenzio la loro battaglia quotidiana, per la sopravvivenza contro il precariato, contro le mafie (conoscete il movimento Ammazzatecitutti ?) per costruire e dare, a noi tutti, un futuro migliore, si spera, e in ogni caso diverso. Pochi gli spazi dati a questi giovani, poco anche il credito e gli incitamenti (due articoli in due giorni da far piangere. Per fortuna i giornali sono poco letti... e ci credo!), ma cambiare si può e si deve e sta già accadendo. Non è esercizio per vecchietti debilitati da un forte superego, incartapecoriti in una granitica identità della quale non si spoglieranno mai, ma che è il principale ostacolo ad accettare un reale e profondo cambiamento.
Per cambiare in maniera davvero feconda, senza incappare negli errori dei padri (guerre, rivoluzioni, eccetera), bisogna accumulare conoscenza, l'unica eredità delle passate generazioni che davvero valga la pena salvaguardare.
Nelle aziende, nelle istituzioni, in politica, chi davvero ha voglia di imparare per cambiare? Chi ha l'umiltà, come i giovani universitari, di presentarsi davanti al sapere accumulato dall'umanità, per comprendere una modalità davvero nuova di cambiamento, senza perpetuare ancora una volta la propria identità?

Dunque, il futuro non è oggi, ma va costruito da chi nel futuro ci sarà, e chi non ci sarà, ma vuol dare un contributo, accumulando conoscenze, come fanno i giovani, rendendole disponibili in forma intellegibile ad altri (ruolo principe dell'Università, ma non solo) oppure "aprendosi" ai cambiamenti profondi (che è equivalente a dire "rinunciare", in tutto o in parte, alla propria identità).
Siamo disponibili a questo processo? Celli e Prodi danno per scontato di no, e, forse, hanno ragione per le loro generazioni che, probabilmente, non hanno più il fisico per mettersi in discussione.
Rimangono i giovani, ma solo quelli col fisico bestiale e, secondo me, per fortuna ce ne sono ancora tanti.

martedì 3 novembre 2009

Mettiamo insieme un po' di notizie .. scopriremo che ...

Mettiamo insieme un po’di notizie ...
Oggi (3 novembre 2009) sul Sole 24 ore sono apparsi alcuni articoli che il giornale non collega né editorialmente né con commenti, ma che, secondo me, permettono di comprendere dove siamo, dove non stiamo andando e dove, invece, dovremmo andare.
Il primo è l’articolo di fondo di Nouriel Roubini. Riporto il sottotitolo della continuazione a pag 15 del testo in prima pagina: “Le operazioni di carry trade sul dollaro potrebbero destabilizzare il sistema”. Al di là dei tecnicismi, si sostiene che le operazioni di carry trade stanno costruendo un’altra mega bolla di prossima ventura esplosione.
Poi, vi sono gli articoli che descrivono gli sforzi per migliorare la quantità e la qualità del credito. In particolare, si descrive la moratoria che le banche stanno concedendo. E come questa moratoria debba essere utilizzata. "La moratoria ha senso - sostiene Morandini (secondo quanto riferisce Rita Fatiguso) - se si riesce a recuperare volume e far crescere il fatturato. La strada degli incentivi ha funzionato, adesso vanno estesi a tutto il manifatturiero. Bisogna rilanciare i consumi.”
Da ultimo, un' intervista a Diana Bracco che propone: “Il Paese investa nel futuro”. E l’investimento è sostanzialmente nella ricerca tecnologica.
Tutti questi articoli manifestano un'unità profonda: rivelano dove stiamo andando. E, purtroppo, indicano che stiamo cercando di ritornare al mondo pre crisi. E questo non è possibile!
Stiamo tentando di tornare al mondo pre crisi perché la finanza continua a cercare fonti di guadagno auto riferite: investendo su se stessa e non su progetti d’imprese. E, così, non rimuovendo la causa fondamentale (l’investire auto riferito su se stessa) del formarsi di bolle sempre più gigantesche.
Stiamo tentando di tornare al mondo pre crisi perché le imprese, da parte loro, non hanno l’ambizione di costruire una nuova economia ed una nuova società. Si vuole che aumentino i consumi e si intende: i consumi dei prodotti di sempre. Non si percepisce che non è più possibile costruire sviluppo aumentando la produzione dei prodotti di sempre. Innanzitutto per ragioni di sostenibilità. Non voglio fare dell’ambientalismo di maniera, ma mi spaventa che nessuno colga che lo stile di vita occidentale non può diffondersi in tutto il mondo perché non abbiamo le risorse fisiche perché questo sia possibile. E, ancora di più, non si percepisce che questi consumi sono sempre meno desiderabili. I prodotti hanno perso gran parte del significato simbolico che avevano nel passato ed è rimasto loro solo un significato funzionale che ne diminuisce il valore percepito. Forse, nascostamente, anche se non si vuole ammetterlo, si riconosce tutto questo perché si spera in incentivi diffusi: senza incentivi non si compra. Ma gli incentivi sono controproducenti perché nascondono la perdita di interesse su prodotti che vengono comprati solo se costano molto meno di quello che servirebbe alle imprese per prosperare. E, poi, spostano in là il momento in cui riusciremo a prendere coscienza che altri consumi ed altre imprese sono necessari, possibili e desiderati.
Stiamo tentando di tornare al mondo pre crisi perché le banche si sono piegate (non solo per responsabilità sociale, ma anche perché spaventate dell’effetto sui loro bilanci dell’impatto delle sofferenze che avrebbe generato il non concedere una moratoria) alla moratoria, ma non hanno un ruolo attivo nell’aiutare la consapevolezza delle imprese sul fatto che un’altra industria, un’altra economia è desiderabile, necessaria e possibile.
Stiamo tentando di tornare al mondo pre crisi perché si parla solo e soltanto di innovazione tecnologica. Non è solo di innovazione tecnologica che necessitiamo, ma di innovazione umana: dobbiamo riprogettare un nuovo sistema industriale, una nuova economia, una nuova società ed un uomo nuovo. Per fare questo, dobbiamo prendere atto che, oggi, la scienza non è più quella che sta al fondamento della vecchia tecnologia industriale. E’ nata una nuova scienza che costituisce una rivoluzione rispetto alla concezione della scienza di Galileo, che sta al fondo della società industriale. La nuova scienza, che, qualche volta, viene descritta come “scienza della complessità”, è la materia prima per comprendere i processi evolutivi dei sistemi umani (le imprese, ma anche le istituzioni) e, quindi, per progettarne di nuovi (nuove imprese e nuove istituzioni).
Conclusione? Cioè: dove dovremmo andare? L’ho già scritto … E’ necessario, invece tentare di tornare al mondo pre crisi, avviare la costruzione di un nuovo mondo partendo da quell’insieme di nuove conoscenze che sono costituite dalle scienze della complessità. Lo stiamo facendo con mille iniziative, mille stille di proposta …

lunedì 26 ottobre 2009

Lettera Aperta a Giuseppe Morandini

Egregio Sig. Morandini,
ho appena terminato di leggere il suo appassionato intervento sullo speciale “Piccole imprese” del Sole 24 ore di Sabato 24 ottobre 2009.
Mi permetto un piccolo contributo. Piccolo nel senso di corto, forse un po’ più grande come contenuto. In sintesi: non disponiamo delle conoscenze e delle metodologie necessarie per uscire dalla crisi. Siamo come chirurghi che non abbiano fatto l’esame di anatomia. Ed allora è urgente procuracele, queste conoscenze e metodologie.

Mi spiego partendo da alcuni “basics” che sembrano banali, ma …
La imprese devono fornire cose che interessano e servono.
Quando forniscono cose che interessano e servono molto, prosperano molto. Quando forniscono cose che interessano e servono meno, prosperano meno.
Quando forniscono cose che interessano e servono molto sopportano tutti i disagi (fisco, energia, burocrazia). A mano a mano che producono cose che interessano e servono meno, sopportano sempre meno, fino a soccombere ad ogni stormir di fronde.

Ho proposto questa carrellata di basics perché è ragionando su di essi che si arriva ad una visione un po’ diversa da quella prevalente sulla crisi. La crisi attuale non è stata causata da finanzieri e banchieri banditi, incoscienti, pavidi. Certamente molti di loro non sono stati stinchi di santi. Anzi, si sono comportati da bambini viziati e capricciosi. Ma, anche quando li trasformassimo in finanziari e banchieri altruisti, saggi, financo coraggiosi, se continuassimo a produrre cose che interessano sempre meno e servono sempre meno, non avremmo risolto la crisi.

Sì, la crisi ha una ragione sola: il sistema industriale che ha generato la società industriale deve ristrutturarsi profondamente perché, da un lato, le esigenze, i desideri delle persone sono cambiati. Desiderano altre cose, altri oggetti, altre case, altre città. Lo stile di vita proposto dalla società industriale è stato “splendido splendente”, ma ora sta venendo in uggia: si desidera qualcosa di altro.
Da un altro lato, anche se le persone della terra non desiderassero altre cose e continuassero a delegare la loro auto realizzazione al prossimo paio di scarpe, garantendo la crescita di questo sistema industriale, ci si scontrerebbe con la ribellione della natura. Per essere praticissimi e per non fare i soliti discorsi di un ambientalismo solo interessato a combattere la libera impresa: se tutti i sei miliardi di persone desiderassero così intensamente (da remunerare adeguatamente chi le produce) lo stesso numero di paia di scarpe che possediamo io e lei, non vi sarebbero vacche sufficienti per fornire tutto il cuoio necessario. Al di là della metafora stupidotta: anche se tutti lo desiderassero (e non è così!)non vi sono le risorse per diffondere a tutto il mondo lo stile di vita occidentale.

Allora la soluzione della crisi sta in un lavoro di riprogettazione della identità delle imprese e del sistema industriale nel suo complesso. Diamo un nome a questo riprogettare. Si chiama “fare strategia”.
Ecco quelle che mancano sono le conoscenze e le metodologie per fare strategia.

Mancano: verbo troppo generico. Occorre specificare. Esiste certamente un corpo di conoscenze che servono a fare strategia. Ma, oggi, banchieri e imprenditori ne usano pochissime di quelle esistenti. Se prende in considerazione i business plans (che sono i documenti dove si scrive quale nuova identità dell’impresa si vuole costruire e che, purtroppo, descrivono solo come l’impresa stia tentando disperatamente di conservare l’identità del passato) vedrà che essi usano strumenti vecchissimi (la SWOT analysis, ad esempio) per descrivere l’attrattività del business, oppure invecchiati (il modello di Porter , ad esempio, in versione, per di più, edulcorata) per descrivere la posizione competitiva dell’impresa.

Esiste certamente un corpo di conoscenze che servono a fare strategia, ma, anche se imprenditori e banchieri le usassero tutte, invece di usarne solo un piccolo sotto insieme, non basterebbero ancora. La “scienza” della strategia è, come altri ambiti disciplinari, in profonda crisi. E non è certo solo un mio giudizio, ma è il giudizio di tanti tra i più grandi esperti internazionali. Ed è un giudizio suggerito dai fatti: la strategia d’impresa è una “scienza” giudicata inutile, perché non viene né appresa, né usata.
Attenzione non sto parlando delle conoscenze e delle competenze economiche, sulle quali pure ci sarebbe molto da ridire. Sto parlando di quelle conoscenze e competenze che servono a capire quanto la proposta di un’impresa è ancora “vitale” e come si può renderla vitale se tale non lo è più.

Allora nasce evidente una nuova urgenza che sta prima e dietro a tutte le altre: è necessario sviluppare e poi usare nuove conoscenze e competenze di strategia d’impresa.
Noi abbiamo fatto un primo passo in questa direzione e stiamo cercando con diversi strumenti ed eventi di mettere a disposizione del sistema economico italiano le nostre “scoperte”.

La presente News letter è uno di questi strumenti. Il nostro obiettivo è che, attraverso di essa, si possa non solo diffondere una nuova cultura strategica. Ma anche avviare un nuovo dibattito sulla crisi e sul modo di uscirne. Per questo stiamo inviando questa nostra News letter a tutta la Business Community italiana. E la pubblichiamo nei nostri blog: www.meconsulting.org e http://balbettantipoietici.blogspot.com/. Spero in un a sua risposta a questa mia lettera aperta. Sarà nostra cura pubblicarla nei nostri blog e farne oggetto di un numero della nostra News letter.

Un altro strumento è costituito da un Workshop che si terrà a Milano il giorno 10 novembre presso l’Hotel Michelangelo in Via Scarlatti, 33. Spero in una sua presenza.

Con stima, un cordiale saluto
Francesco Zanotti

venerdì 23 ottobre 2009

Pro o contro il posto fisso

Il dilemma è pendolante: posto fisso o flessibilità?
E il pendolo, come è dovere di tutti i pendoli fare, oscilla tra un estremo e un altro … Con grandi rimescolamenti di posizioni, come si vede in questi giorni.

Quando il pendolo ... pendola … significa che nessuna delle due posizioni estreme è soddisfacente. E non lo è neanche la posizione intermedia (di equilibrio) che non soddisfa nessuno dei due estremi che cercano, ad ogni stormir di fronda, di riportare il pendolo a casa loro.

Allora è necessario guardare altrove.
Per farlo inizio con una domanda che potrebbe sembrare a favore dell’estremo flessibilità”, ma non lo è!
La domanda è la seguente: chi propone il posto fisso a chi assegna l’onere di garantirlo? Alle imprese? Be’ non funzionerebbe. Si può anche impedire alle imprese di licenziare, ma se, quando è il momento di pagare gli stipendi, le imprese non hanno i soldi (in genere perché le banche non glieli danno) che se ne fanno le persone di un posto fisso che non significa stipendio fisso? Allora, invece di posto fisso occorrerebbe garantire stipendio fisso (sono esattamente la stessa cosa se l’impresa dispone di risorse infinite o può procurarsele quando serve come lo Stato). L’onere è a carico dello Stato? E lo Stato che fa? Presta i soldi alle imprese? O costringe le banche a finanziare le imprese? Oppure cosa altro? Forse qualcuno pensa che basta costringere i capitalisti cattivoni a guadagnare un po’ meno e le imprese possono garantire automaticamente stipendio fisso.
Mi sembra una domanda rilevante che non sento posta ed alla quale, ovviamente, non trovo risposta.

Ma continuiamo, con un'altra osservazione che sembra ancora portare mulino all’estremo pendolare della flessibilità, ma non è così. E convinco il lettore affermando che la flessibilità, così come viene intesa, lascia aperte domande senza risposta ancora più inquietanti …
L’osservazione: ma non è vero che il posto fisso (ripeto: è interessante lo stipendio fisso e non il posto fisso. E le cose non coincidono) rende la gente più sicura. Vi è un crescente numero di persone che preferisce garantirsi personalmente il futuro piuttosto che delegarlo, lasciarlo, impotentemente, in mano ad altri. Per costoro il posto fisso è un non senso. Come se legandoli al posto fisso li si legasse ad una prigione dove si dipende in tutto e per tutto dagli altri. Mica tutti sono così, ma ve ne è un numero crescente. Obiezione, ma il posto fisso mica è un obbligo. Certo che no! Ma questa posizione non solo va evidentemente accettata, ma è necessario scoprirne la cifra profetica …

Allora: viva la flessibilità? Un momento: quale flessibilità? Una flessibilità seria ha due “corni”. E si una flessibilità in uscita, cioè la flessibilità di buttare fuori. Ma deve anche prevedere una flessibilità in ingresso La possibilità di “buttare dentro” in un posto dove possono pagare quello stipendio che l’azienda che ha buttato fuori non può più pagare.
Ma allora abbiamo spostato il problema: dalla singola impresa, al sistema delle imprese. Perché la flessibilità (che deve essere equilibratamente sia in entrata che in uscita) vi devono essere imprese che assumono (e possono pagare loro lo stipendio) chi vien licenziato … Ma il sistema delle imprese non può garantire, sia pur collettivamente e non individualmente, lo stipendio fisso.


Allora, credo proprio che il dibattito sul posto fisso sia un “non sense”. Non sia che una ulteriore manifestazione di un più grande dibattito pro o contro la libera impresa che, francamente, ha proprio stufato. Si porta dietro la muffa, oramai ammuffita, degli anni ’70.

E' il momento di provare a guardare altrove, oltre la flessibilità e il posto fisso ..
In che situazione stiamo vivendo? Siamo di fronte al finire di un modello di società ed abbiamo il dovere di costruirne un altro. Nello specifico: è necessario progettare un nuovo sistema industriale ed un nuovo sistema economico. Il tentativo di conservare, come purtroppo si sta facendo, il vecchio sistema industriale ed economico in attesa che parta una ripresa che permetta di non cambiare nulla è fallimentare.

In questa contingenza storica cambiano i ruoli all’interno dell’impresa. Il lavoratore non può più essere solo esecutore, ma deve diventare risorsa progettuale per rinnovare continuamente l’impresa. Cambiano i ruoli,
non quando si produce, ma quando si progetta il futuro. La progettazione del futuro non può essere solo onere dell’imprenditore. In questa contingenza storica la vera “cosa” (guardate: non abbiamo neanche un nome per definirla) che garantisce tutti è un patto progettuale. Detto diversamente: l’impresa non deve più essere solo una gerarchia produttiva, ma ,anche e prima, una comunità progettuale. Ecco che abbiamo dato un nome alla “cosa”: comunità progettuale.
Una gerarchia esecutiva quando occorre cambiare il mondo, non può garantire nulla a nessuno. Una comunità progettuale è l’unico soggetto in grado di auto garantirsi solidalmente, il futuro.

E’ utopia l’idea di una comunità progettuale? Se sembra così, allora siamo sulla buona strada perché i grandi cambiamenti ( e Dio solo sa quanto di grandi cambiamenti abbiamo bisogno) vengono innescati solo da utopie. E poi è una utopia già in atto. Mille piccole imprese sono sempre stati comunità solidali. Oggi devono diventare comunità progettuali, ma il passo è meno assurdo di quello che sembra. Mille persone, quelle che considerano il posto fisso un a prigione, non aspettano altro che si offrano loro comunità progettuali che certamente non vedrebbero come prigioni.
Esiste anche una nuova cultura d’impresa che potrebbe stimolare e supportare l’affermarsi di comunità progettuali. Non è certo la cultura della competitività e della leadership. E’ la cultura dei sistemi emergenti.

giovedì 15 ottobre 2009

Non a caso Elinor Ostrom si è fermata solo lì ...

Ad Elinor Ostrom è stato assegnato il Nobel per l’economia. Significativo, profondamente descrittivo è il titolo di un suo pezzo pubblicato il 13 ottobre 2009 sul Sole 24 ore: Innovazione dal basso. Ella sostiene che “Dobbiamo aprire il settore pubblico all’imprenditorialità ed all’innovazione”. E poi “I cittadini spesso
trovano nuovi modi di mettere insieme i servizi usando un mix di talenti e risorse locali”.
Sono tesi certamente da condividere. Che oggi, altrettanto certamente, merita il Nobel per l’economia. Sono tesi che andrebbero attentamente studiate da tutti i Governanti e tutti gli economisti che stanno progettando grandi riforme dall’alto. E da tutti gli strateghi d’impresa che non hanno ancora capito che la strategia non può nascere da un freddo processo progettuale curato da specialisti.
Ma non è un caso che una economista si sia fermata solo lì …
Non intendo certo sminuire il suo lavoro. Voglio solo osservare che s Elinor Ostrom si è fermata alla metà di un guado dove, certamente, pochi economisti sono giunti, ma che molti altri hanno già superato.
Sono arrivati sull’altra sponda, dalla quale stanno esplorando nuovi orizzonti, tutti coloro che hanno esplorato e studiato i sistemi complessi. Tutti costoro sanno che i sistemi complessi vengono generati da processi emergenti, dal basso. Lo sanno da decenni. Hanno iniziato a intuirlo da quando si è scoperto il ruolo attivo dell’osservatore dalla meccanica quantistica. Hanno, poi, precisato questa intuizione in mille dettagli, fino ad arrivare alla comprensione dei meccanismi dell’auto poiesi e dell’autoreferenzialità che presiedono alla formazione dei sistemi complessi. Fino alla scelta del livello mesoscopico (tra macro e micro) come luogo elettivo per leggere il formarsi di un sistema complesso. Fino alla proposta di Sorgente Aperta, un nuovo metodo di Governo, per stimolare e gestire processi emergenti.
Gli economisti sono rimasti all’intuizione (verificata “sperimentalmente”, dicono loro) che è possibile il governo dei sistemi umani dal basso. Cioè, una scoperta che la fisica quantistica aveva già reso disponibile negli anni ’20. E non stanno usando tutto il resto che abbiamo sommariamente citato prima. Tanto meno il nuovo metodo di governo che abbiamo definito Sorgente Aperta.
Questo isolarsi degli economisti è dovuto alla convinzione che la conoscenza sia strutturata in discipline dai confini giudicati (forse anche voluti) rigidi ed invalicabili. Una conoscenza che coltiva il mito dell’esperto che, forte della “astrusità” della sua disciplina, si auto costruisce un ruolo di “sacerdote del futuro”.
Con in mente questo modello di conoscenza, non si riesce a cogliere la portata rivoluzionaria di una scienza dei sistemi (sistemica), capace di stare al fondo, di ascoltare e fecondare ogni ambito disciplinare. Così si rischia che mille specialisti di mille discipline ripercorrano le stesse strade, senza cercare di imparare da coloro che davvero stanno già sull’altra sponda del guado che tutte le discipline dovranno inevitabilmente superare.
L’economia è, davvero, un esempio eclatante di questa visione della conoscenza. Nei mesi scorsi si è scatenata una battaglia sulla “serietà” o meno dell’economia. Una scienza sulla quale tutti facciamo affidamento, ma che viene messa in discussione perché le si addebitano mille colpe. A queste colpe gli economisti rispondono con una diffusa levata di scudi … Io credo che, invece di accuse e difese, sarebbe il caso di provare a esplorare i fondamenti epistemologici dell’economia. Li si troverebbe simili a quelli della meccanica classica. E, così, si scoprirebbe che gli economisti, mediamente, salvo eccezioni che meritano davvero il Nobel, non hanno neanche iniziato a guadare il fiume che permette di lasciare la landa oramai sfruttata della società industriale che nella meccanica classica ha il suo ideale epistemologico. E si proverebbe a suggerire agli economisti di guardare dall’altra parte del fiume che hanno davanti. Dove vi è chi sta loro tendendo una mano fatta di nuovi modelli e metafore per rinnovare la sua missione di servizio allo sviluppo.
Per rompere gli steccati tra discipline che si stanno inviluppando in sterili autoreferenzialità e favorire una sempre più feconda trans disciplinarità, stiamo immaginando un Expo della Conoscenza nel quale vengano “esposte”tutte le conoscenze che nel secolo scorso hanno superato la visione del mondo propria della scienza “classica” (che ha come modello di conoscenza e di intervento la meccanica classica). Non solo vengano esposte, ma si cerchi anche di capirne l’utilizzabilità nelle diverse discipline per renderle strumenti per costruire una nuova società che superi l’attuale crisi della società industriale.
Proviamo ad immaginare alcuni dei possibili risultati che l’Expo della Conoscenza potrebbe produrre per l’economia:
  •  l’imprenditore come operatore quantistico
  •  la competizione auto costruita
  •  i settori e i distretti industriali come meso strutture
  •  il fare strategia come creazione sociale di conoscenza
  •  le regole come sintesi ex-post di processi emergenti
  •  il Governo dell’economia come attivazioni e gestione di processi emergenti
  •  le banche e le istituzioni finanziarie come erogatrici non solo di risorse finanziarie, ma anche di         linguaggi e metodologie progettuali
  •  le comunità locali come fonti delle risorse cognitive fondamentali
  •  le persone come nodi protagonisti delle reti sociali di cui è fatta un’impresa
  •  la sicurezza come creazione di una comunità di “nodi protagonisti”.
Risultati per l’economia? In realtà pensiamo che dall’Expo della Conoscenza nascerà una vera e propria proposta per costruire quello sviluppo dal basso che alcuni economisti sono riusciti solo a vedere.

lunedì 5 ottobre 2009

Tragedie ed autoreferenzialità


Quando accade una tragedia vi sono delle costanti. Era prevedibile. Era una previsione fatta e nota: tutti sapevano. E’ stata una previsione disattesa: nessuno ha fatto nulla.

A questo stato di cose disastroso, vi sono due modalità di reazione civile.

La prima è: dalli al politico, scemo o corrotto. La tragedia diventa un’occasione per rinfocolare la battaglia politica. Sembra quasi che la tragedia sia vissuta come un’opportunità per sferrare la stangata decisiva all’avversario ...
Qualche volta la stangata ha effetto e si cambiano i politici. Ma anche quelli nuovi ricadono negli errori precedenti …
Allora si scatena il mito della società civile: tutti i politici sono scemi e corrotti. Sostituiamoli con la società civile ... E così quando i membri della società civile diventano politica, iniziano a comportarsi come i vecchi politici.
Non se ne esce! Allora?

Allora occorre guardare da un’altra parte. La seconda interpretazione. Porta ad immaginare una soluzione. Ma …

Usiamo la metafora del sistema auto referenziale.
Cosa è un sistema autoreferenziale? E’ un sistema i cui componenti hanno come riferimento fondamentale loro stessi. E hanno come obiettivo quello di occupare il massimo spazio possibile all’interno del sistema. Allora, gli stimoli esterni (ad esempio le previsioni sulle tragedie) sono considerati occasioni per ridiscutere gli equilibri interni. Si giudicano questi stimoli in base alla loro potenzialità di ridiscussione degli equilibri esistenti. I festini di Berlusconi hanno maggiore potenzialità di ridiscutere gli equilibri del sistema politico di previsioni di tragedie che, come tutte le previsioni, possono anche non accadere.
Un sistema democratico di tipo rappresentativo genera necessariamente un sistema politico autoreferenziale. Cioè chiunque sia eletto, si comporterà auto referenzialmente. Ripeto: considerando gli eventi della società come occasione di ridiscussione degli equilibri interni.

Il momento delle elezioni “apre” il sistema che considera, questa volta, la società come riferimento fondamentale. Ma l’apertura dura giusto il tempo delle lezioni. Poi, tutto torna come prima. Quello che accade all’interno del sistema politico è molto più interessante di quello che accade fuori. Quando accade fuori è guardato solo e soltanto se si pensa possa aiutare a sconfiggere l’avversario.

Allora la soluzione è banale: occorre aprire nel continuo e nel contingente il sistema politico.
Come fare? E qui viene il difficile. Perché la soluzione è radicale. Cambia la logica del fare politica …
Ma, a questo punto, interrompo il discorso. Troppo difficile da raccontare. Troppo difficile da ascoltare. Non complicato, anzi molto semplice. Ma non ci sono le condizioni dell’ascolto. Troppo intrigante è sbrigarsela con invettive contro i politici scemi o corrotti. Scarica la coscienza e l’ansia. Ma certo non risolve il problema. Pubblicherò una prima proposta su come si possono evitare i danni dell’autoreferenzialità solo e soltanto se questo primo articolo scatenerà un dibattito. Altrimenti: alla prossima tragedia.
Francesco Zanotti

lunedì 31 agosto 2009

Stimolare e supportare l'emergere del futuro

Che dobbiamo costruire un futuro diverso dal passato non è una dichiarazione retorica: è una stringente necessità.
Nelle classi dirigenti serpeggia la speranza che tutto ritorni come prima. Sono colpite da “sindrome da conservazione”. Il dibattito su “Quando si uscirà dalla crisi? Quando ci sarà la ripresa?” è la manifestazione più evidente di questa sindrome. Infatti, tutte e due le domande presuppongono che la fine della crisi e l’inizio della ripresa siano conseguenza della fine delle turbolenze dei due anni scorsi e di un ritorno alla “ragionevolezza”. Cioè, tutto come prima. Il desiderio è che quella società, dove la classe dirigente continuerà a giocare il suo ruolo di classe dirigente, si conservi nel futuro, magari convincendosi che è l’unica possibile.
Ma così non sarà. Accadrà un futuro molto diverso dal passato. Ed ogni sforzo di conservazione non farà altro che frenare, comprimere tutta l’energia del futuro che, poi, sarà costretta ad esplodere in modo violento.

Ma come accadrà questo futuro?
Non sarà un futuro imprevedibile, che nasce dal volere misterioso di qualche dio antico (il Fato) o da qualche dio ammantato di matematica, che fa sempre un po’ di mistero (il Caos).
Non sarà un futuro necessitato da qualche legge della storia o dell’economia.
Non sarà neanche un futuro pianificato da qualche intelligenza umana superiore (politici o economisti).
Accadrà il futuro che costruiremo, il futuro che ci costruiremo insieme con le nostre mani tra i mille futuri possibili. E se le nostre mani cercheranno, innanzitutto, di conservare, allora saremo responsabili diretti ed unici (diamine, ma siamo noi ad abitare questa terra! Come possiamo immaginare che quello che accada sia colpa di altri?) della rivoluzione prossima ventura.

Allora la domanda diventa: ma quale è il processo che fa nascere il futuro dalle nostre mani e dai nostri pensieri?
Ecco, si tratta di un processo di emersione e non di un processo casuale, pianificato o necessitato. E’ l’azione autonoma di tanti nodi protagonisti della rete umana che vanno, piano a piano, a costruire (far emergere) “regolarità” (imprese, gruppi sociali, istituzioni, culture, città, opere d’arte) che diventano, complessivamente, la prossima società.

Tutte le società, le civiltà sono state generate da processi di emersione. Solo per citare un caso, eclatante fra tutti, il Rinascimento è stato un processo di emersione. Né pianificato, né causale, né inevitabile. Anche la nostra società industriale è frutto di un processo di emersione che è stato scatenato proprio dall’emergere del Rinascimento.

La metafora dei processi di emersione permette di capire la sindrome della conservazione che ha colpito la nostra classe dirigente. I nodi della rete umana che sono stati protagonisti (le classi dirigenti) e che hanno creato le regolarità (anche regolarità eccelse come le opere d’arte) si innamorano di queste regolarità e tutte le loro energie vanno nel conservarle, nel contemplarle.
Il processo di degenerazione della vitalità di una rete a nodi protagonisti, di chiusura autoreferenziale spiega la gran parte dei guai che stiamo vivendo.
Spiega perché non funziona la modalità con la quale sta cercando di vivere la democrazia. Si tratta di far scontrare ideologie, di scegliere tra modelli di società che, tra l’altro, sono solo
Spiega perché le imprese riescono a vedere solo competizione. E non i grandi spazi di innovazione che hanno di fronte. Spiega perché i nuovi imprenditori si baloccano solo con innovazione tecnologiche interstiziali e non elaborano grandi disegni innovativi.
Spiega perché abbiamo della cultura solo una visione museale e specialistica.
Spiega perché la ricerca tende a costare di più ed a produrre sempre meno.
La metafora della chiusura autoreferenziale permette di capire anche cosa succede se si persegue pervicacemente la conservazione.
Se si cerca di conservare si comprimono i nodi che sono stati eccitati proprio nel contesto costituito da queste regolarità e che vorrebbero costruire altre e nuove regolarità. Ed allora accadono le rivoluzioni generate, con uno storico concorso di colpa, dai vecchi nodi protagonisti che frenano e dai nuovi nodi protagonisti che sono costretti a strappare spazi di autorealizzazione. Le rivoluzioni sembrano l’unico modo per rompere la conservazione e per ridare vita a un nuovo processo di emersione di quella nuova società che è così necessaria.

Allora un’ulteriore domanda “emerge” forte e vibrante: come possiamo fare ad attivare il processo di emersione necessario a costruire una nuova società senza passare dalla rivoluzione? Detto diversamente: come si stimola e si guida un processo emergente?

Non lo si guida con il cercare di affermare una qualunque ideologia. E neanche dando la caccia a qualche cattivo cattivissimo. Ma si può provare a stimolarlo e guidarlo attraverso un processo che abbiamo denominato “Sorgente Aperta”. Esso è strutturato più o meno così.

Il primo passo è quello di gettare nella nostra società attuale nuove culture “profonde”. La società industriale, sia nella sua versione liberista che marxista condivide una comune visione del mondo (del rapporto tra l’uomo e la realtà che lo circonda). Ed è la visione del mondo “emersa” nel Rinascimento e giunta a maturità, concettualmente, con quella grande opera d’arte che è la fisica classica e, operativamente, con quell’altra opera d’arte che è costituita, appunto dalla società industriale. Due gemelli del dire (la fisica classica) e del fare (la società industriale) che hanno creato il mondo in cui viviamo.
Da circa un secolo sta emergendo la consapevolezza che questi due capolavori devono essere collocati nel museo della storia. Ed occorre accingerci a creare nuovi capolavori. Infatti, sta nascendo una nuova visione del mondo che solo marginalmente si sta trasformando in nuove esperienze. La nuova visione del mondo si scatena proprio nel mondo delle scienze dure (la matematica e la fisica) che si scoprono molto diverse da quella che Galileo aveva immaginato. Meglio: scoprono da sole, al loro interno, che la visione che ne aveva il Nostro era primitiva. E stanno ispirando un modo completamente diverso di guardare alle scienze, alla tecnologia ed al conoscere in genere. Cioè stanno ispirando una nuova visione del rapporto tra l’uomo e il mondo che lo circonda. Questa nuova visione del mondo scopre strane, impreviste, anzi sempre negate, assonanze con altre culture, incompatibili con la visione del mondo di Galileo.
Questa nuova visione del mondo serve da catalizzatore per attivare un processo che è, per sommi capi, il seguente.
Il buttare una nuova cultura nella società attuale ha la funzione di generare un “defreezing cognitivo”, cioè una relativizzazione di convinzioni che si sono sempre considerate verità assolute. Ad esso deve seguire un momento di progettualità e di sperimentazione diffusa (di ogni nodo della società che intende essere protagonista). E, poi, un momento di sintesi sociale.
Insomma, attivare e gestire lo svilupparsi di processi di emersione di una nuova società significa attivare processo di progettualità sociale diffusa.

E’ il momento di parlare di noi. Noi che ci stiamo a fare? Il nostro ruolo è quello di raccontare e di rendere disponibile Sorgente Aperta. In questo modo, come recita il titolo, riusciremo a stimolare e supportare l’emergere del futuro.

Il nostro Piano di lavoro.
Per raccontare e rendere disponibile Sorgente Aperta, abbiamo intenzione di sviluppare sei progetti. E di avviare un dibattito continuo intorno a questi progetti.

Il primo è l’Expo della Conoscenza.
L’Expo della Conoscenza è lo strumento con il quale è possibile buttare nella società e in tutte le sue articolazioni nuove visioni del mondo. Abbiamo già fatto un piccolo primo passo verso la realizzazione di un Expo’ della conoscenza proponendo una giornata (l’abbiamo definita: evento di Fondazione) dove abbiamo cercato di condensare i contenuti, il sapore i possibili effetti che potrebbe avere l’Expo della  Conoscenza. E’ nostra intenzione riproporre la stessa giornata in altri luoghi. Ampliare questa giornata in una settimana. Per, poi, proporre la realizzazione vera e propria dell’Expo della Conoscenza.

Il secondo riguarda le dinamiche di evoluzione dei distretti.
Anche i distretti sono nati attraverso processi di emersione spontanea. E’ importante capire quale livello di chiusura autoreferenziale hanno raggiunto e come è possibile rimettere in moto, attraverso declinazioni specifiche di Sorgente Aperta, nuovi processi di emersione feconda che portino ad un ridisegno profondo dei distretti. E’ importante progettare come i tradizionali servizi di sviluppo strategico, che vengono definiti e specificati in molti modi (M&A, ristrutturazioni strategiche, organizzative, finanziarie, chiusura intelligente, passaggio generazionale), possano e debbano fornire i supporti necessari ad una nuova stagione di sviluppo dei nostri distretti.

Il terzo riguarda la strategia e la definizione dei business plan.
Le attuali metodologie di metodologie di progettazione, valutazione e rating strategici sono nati per far funzionare meglio le imprese. Ma non per comprenderne e guidarne un nuovo sviluppo. La metafora della chiusura autoreferenziale permette di definire un nuovo “rating di sviluppo”. Il processo di Sorgente Aperta è il processo che deve guidare la definizione di un business plan.

Il quarto riguarda i grandi progetti di cambiamento organizzativo.
Con “grandi processi di cambiamento organizzativo” intendiamo: processi di cambiamento conseguenti a processi di ristrutturazione, processi finalizzati alla generazione di sicurezza, processi di implementazione dei sistemi informativi, processi formativi.
Oggi questi processi non sono né efficienti né efficaci. Sorgente Aperta propone una nuova filosofia ed una nuova prassi di cambiamento.

Il quinto riguarda il senso del fare impresa.
La gestione delle dimensioni non economiche del fare impresa vengono ancora “relegate” all'esterno del processo strategico in una prospettiva che viene definita: Corporate Social Responsibility. Oggi queste dimensioni devono, invece, rientrare a pieno titolo nella progettazione e gestione strategica, soprattutto delle imprese più complesse. Sorgente Aperta supporta queste imprese, soprattutto le imprese più complesse, più intrecciate con la società, nella scoperta e della gestione delle dimensioni non economiche del fare impresa.

Il sesto riguarda una nuova prassi politica.
L’attuale prassi politica, l’attuale modalità di applicare la democrazia è fondata sulla competizione tra parti diverse per raccogliere consenso intorno ai loro programmi che vengono considerati alternativi.
Noi crediamo occorra cambiare radicalmente questa visione della politica. In estrema sintesi e procedendo per punti …
Oggi il fare politica ha come momento centrale la competizione elettorale. Essa costringe le diverse parti politiche a contendersi i voti. Per far questo sono costrette a considerare alternativi i propri programmi. Come accade per scarpe, biscotti e quant'altro  se ne compri di un tipo non ne compi di un altro. Allora se io produco un certo tipo di biscotti sono costretto a dure che sono i migliori.
L’essere costretti a considerare alternativi i propri programmi politici accelera il processo di chiusura auto referenziale delle diverse parti politiche. E di personalizzazione dello scontro politico.
E’ necessario cambiare questa prassi politica, questa modalità di applicazione della democrazia e considerare il momento elettorale come un momento non di scelta, ma di progettazione sociale.
Questo cambiamento trascina con sé un cambiamento complessivo del fare politica, della visione delle istituzioni, del ruolo delle costituzioni e di quant'altro.
Per sperimentare, per rendere visibile questo modo di fare politica, stiamo progettando una partecipazione “virtuale” ad una prossima campagna elettorale. Così da poter affrontare liberamente i contenuti, i programmi, le idee senza la distorsione di dover creare differenze e contrapposizioni a causa della competizione sul consenso.

Il dibattito continuo.
Per sostenere la realizzazione di questi progetti, avvieremo dibattiti continui sui principali temi legati ai progetti stessi.
Ci occuperemo della crisi attuale cercando di dimostrare come essa sia il frutto di un'ossessiva chiusura autoreferenziale complessiva sul passato. Ci occuperemo della cultura e della ricerca. Dello sviluppo dei territori e del rapporto con le banche e le istituzioni finanziarie. Di tutti i processi di direzione. Di tutti gli eventi della nostra vita economica, sociale, politica e culturale cercando di rileggerli alla luce delle prospettive aperte dalla scoperta dei processi di emersione e delle modalità per gestirli.

giovedì 30 luglio 2009

ApertaMente

Emergenza e sincronizzazione spontanea sono processi caratteristici nei sistemi che si auto-organizzano. E' quello che è accaduto durante il convegno "Uscire dalla crisi : nuovi modelli per il management", tenutosi a Milano il 21 luglio ed organizzato da Francesco Zanotti della M&C, con la consulenza scientifica dell'AIRS (Associazione Italiana per la Ricerca sui Sistemi), rappresentata dal guru della sistemica italiana, Prof. Gianfranco Minati, e dell' ISEM (Institute for Scientific Methodology), di cui sono con il chimico Mario Pagliaro il fondatore.
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Cosa significa fare impresa in una società che non può più essere modellizzata dalla metafora della macchina?Come si gestiscono i processi di cambiamento (costruzione) dell’organizzazione e del mercato? In sintesi: come si costruisce sviluppo etico ed estetico? Queste le domande comuni ad un operatore nel campo della consulenza d’impresa, ad un epistemologo costruttivista, ad un fisico dei sistemi collettivi che studia i processi di produzione scientifica.
Come le voci di un’invenzione di Bach , tre approcci e linguaggi diversi si sono intrecciati ed integrati in una visione unitaria. L'idea di fondo è che la "crisi" che stiamo vivendo è frutto di miopia culturale e richiede una "riflessione trasgressiva" sulla necessità di nuovi modelli e metafore per leggere e trasformare il reale. Che significa poi ritrovare gli anelli di congiunzione vitali tra economia, ecologia ed epistemologia ed imparare a vederne le possibili rotte di collisione . E' il tema sempre più urgente posto da un sistema in cui la produzione non è più basata esclusivamente sui beni materiali , ma sulle dinamiche delle relazioni intellettuali ed emozionali tra esseri umani e sull’emergenza di nuovi soggetti sociali. Vedi ad es. Andrea Fumagalli e Sandro Mezzadra (a cura di),
Crisi dell'economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, postfazione di Toni Negri, Verona, Ombre Corte, 2009, e l'indispensabile: Marcello Cini, "Il SuperMarket di Prometeo. La scienza nell'era dell'economia della conoscenza” , Codice Ed.,2008)
Il modo di pensare della società industriale e del mercato è ancora basato invece su un modello riduzionista e meccanico di homo oeconomicus stilizzato quanto quello degli urti perfettamente elastici o dei fluidi perfetti in fisica classica, ed è centrato su nozioni di stabilità, equilibrio e dinamiche deterministiche insufficienti a cogliere la complessità del quadro socio-economico. Come dice Paul Wilmott: "Fidarsi delle formule era come stare seduti con la cintura di sicurezza allacciata guidando come pazzi: non serve a salvarti la vita. Le persone che si occupano di gestione sanno ben poco di ciò che dovrebbero; non hanno spirito critico, non hanno testato i dati e non hanno usato la loro immaginazione per cercare vie d’uscita ai problemi”.
Inutile dire che la "politica" segue a ruota e diventa il paradigma di un modello infecondo.
Una tipica risposta apparente ed "automatica", sono le dinamiche "competitive", che si presentano come liberazione di energie creative e sono invece in larga misura strategie di difesa e conservazione: la concorrenza non nasce dal mercato ma è una forma di auto-costruzione dei partecipanti, di legittimizzazione reciproca e di accumulazione delle “anomalie” ai margini.
Come fisico non ho potuto fare a meno di pensare a molte teorie alla moda che hanno già esaurito il loro ciclo vitale e si presentano invece - anche grazie alla beatificazione mediatica - come vive, combattive ed "eleganti", ben arroccate nel loro castello di papers crescenti con una velocità superiore a quella della luce (possono farlo perché, come dice Bob Laughlin, non trasportano informazione!).
Particolarmente interessante è il caso della mitologia diffusa dell'innovazione tecnologica, che non può colmare il gap della produzione di ricchezza delle imprese tradizionali e sopratutto non cambia il rapporto tra lavoro, capitale ed ambiente. La tecnologia, in sé, non può essere un driver di nuove progettualità, ma assume piuttosto il ruolo di racconto consolatorio sulle sorti magnifiche e progressive alle quali si vuol credere. Questo tipo di "story-telling" ha l'unica funzione di "tirare il collo" alla famosa funzione logistica, la curva ad S usata per modellizzare i processi di sviluppo. All'inizio, la crescita è quasi esponenziale, successivamente rallenta, diventando quasi lineare, per raggiungere una posizione asintotica dove non c'è più crescita. La competizione ed un'errata, o demagogica, visione dell'innovazione ha proprio il ruolo di ritardare il destino asintotico della curva di crescita, dove invece il problema è quello di innescare una nuova singolarità.
Ma questo non avviene, perché gli schemi cognitivi utilizzati sono sempre gli stessi.
E' necessario dunque un ripensamento radicale del rapporto tra conoscenza e mercato, ed accettare la sfida dell'incertezza radicale, la povertà della completezza e la ricchezza dell’incompletezza, imparando a rilevare emergenza (Minati).
Come ha scritto Cesare Sacerdoti sul Tempo Economico annunciando la giornata di studio:
“Per quanto riguarda i “pratictioners” lo stato dell’arte dell’utilizzo della cultura strategica rasenta l’ignavia. Un solo esempio: definire un business plan “Info memorandum” è davvero la dichiarazione, sostanziale se non formale, che la nostra conoscenza riesce solo a descrivere il presente, a prenderne atto. Se, poi, guardiamo a più generali culture e pratiche di Governo lo scenario è ancora più deludente, sia nella teoria che nella pratica”. Clip_image002
Le tradizionali analogie tra ecosistemi ed sistemi socio-economici mostrano una debolezza che è stata la sorgente storica di tante deformazioni "naturalistiche" della teoria economica (vedi L'Orologiaio Cieco e la Mano Invisibile). Un ecosistema non ha un modello cognitivo di sé stesso, un sistema socio-economico si! Il punto essenziale è che il management è non semplicemente una derivazione economica dell'azienda, ma ne costituisce il sistema cognitivo (Licata).
Un esempio è la marginalizzazione del concetto di cooperazione, riservato ad una dimensione "etica" ed "estetica" del mercato e dunque ineluttabilmente "altra".La "cooperazione" di cui parliamo- trasportata dai paesaggi di fitness della Artificial Life- nasce dalla capacità di una classe manageriale di usare più strumenti interpretativi per comprendere il mondo, ed il suo "successo" dipende dall'ampiezza dei suoi strumenti epistemologici e dalla loro capacità di accogliere le dinamiche sociali, non puntando su un "bisogno" o inducendolo, ma entrando in sintonia con le esigenze profonde del tempo. Sfuma dunque la tradizionale distinzione tra stakeholders e shakeholders in una visione costruttivista e sistemica delle dinamiche sociali (Minati). Stesso discorso per la “sostenibilità”, non più fanalino di coda o fiore di carta utopico, ma capacità di pensare il rapporto tra sistema- impresa ed ambiente a lungo termine ed in senso globale.
Il manager è dunque come un “operatore quantistico” che agisce sulle potenzialità del possibile rendendole reali ( Zanotti). Ma non ci si è limitati ad una discussione critica per metafore. All’interno del modello “Sorgente Aperta” di Zanotti è stato proposto un modello di life-cycle e di rating delle imprese basato su una matrice "fuzzy" estremamente facile da usare ed assai più efficace di certi schemi che somigliano alla risposta “quantitativamente esatta” del computer della Guida Galattica per Autostoppisti, di Douglas Adams:
Quarantadue!" urlò Loonquawl. "Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?"
"Ho controllato molto approfonditamente," disse il computer, "e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda."
Un’ immagine, per concludere. Il colosso Sony nacque nel Giappone disastrato del 1946 dalla visione di Akio Morita, un fisico, e Masaru Ibuka, ingegnere, per “riportare alto l'onore del Giappone nel mondo”. A ricordarci che il successo di un’impresa- economica, scientifica, culturale- è sempre il risultato di una storia d’amore con il proprio tempo.

domenica 26 luglio 2009

Lettera aperta a Gianni Riotta



Egregio Direttore,
ho letto giusto ora (domenica 26 luglio 2009) il suo “Sogno italiano di mezza estate”. Certamente scritto bene, certamente saggio, ma … il problema sta nei cubetti del lego.
Ha presente quegli artisti che con i cubetti di lego costruiscono immense cattedrali, altrettanto fantastici ponti e quant’altro? Bene, costoro dispongono di una grande vastità e varietà di cubetti di lego …

 Oggi, come tutti stanno, piano piano, riconoscendo, è necessario riprogettare una nuova società. Niente di più niente di meno. E come si progetta una nuova società? Ecco che arriva il problema dei cubetti di lego …
Fuor di metafora, ma non troppo … Ogni società ha alla sua base un certo numero di cubetti di lego, cioè una visione del mondo che si sostanzia in un sistema specifico di modelli e metafore. In un linguaggio, insomma, che diventa lo spazio del possibile di quella società.
La nostra società è fondata su di un “cubetto” fondamentale. Esso è costituito dalla visione del mondo di Galileo: “le fondate esperienze e certe dimostrazioni”. Questa visione del mondo è stata profetica perché ha permesso un aumento straordinario della qualità della vita. Ma ora la società che è stata generata dal cercare “sensate esperienze” e dal credere in “certe dimostrazioni” ha raggiunto il suo limite di compatibilità sia con l’uomo che con la natura.
Se noi vogliamo abbandonare lungo la storia questa società e progettarne un'altra, dovremmo abbandonare la visione del mondo e il sistema di modelli e metafore che l’hanno generata.
Per fortuna intorno a noi esistono mille negozi di nuovi cubetti. Esiste una nuova visione del mondo ed è proprio nata dalle due scienze che Galileo riteneva fondamentali: la fisica (le sensate esperienze) e la matematica (le certe dimostrazioni). Queste due scienze ci hanno insegnato a superare loro stesse. La fisica ci ha insegnato a superare le sensate esperienze: quando si guarda il mondo, in realtà, lo si costruisce, non lo si misura. E la matematica ci ha insegnato a superare la cultura delle certe dimostrazioni: l’uomo non costruisce teorie, che deve, poi, difendere da altre teorie, ma scrive storie che può difendere solo esteticamente.
Da questo superamento sono nati mille nuovi modelli e mille nuove metafore che, se vuole usare un termine noto, può raggruppare nell’espressione “cultura della complessità”. Per concretizzare il discorso che ho fatto, e visto che Ella dirige un giornale economico, l’economia che va per la maggiore è ancora legata alla visione galileiana del mondo. Infatti, parla di “leggi dell’economia”. La nuova cultura della complessità rivela che “leggi dell’economia” non esistono. Esse sono una nostra costruzione e, se non ci vanno bene, potremmo formularne altre …
Il problema è che le classi dirigenti economiche, sociali, politiche, istituzionali, mediatiche conoscono ed usano solo la vecchia visione del mondo. Ed allora, quando si sforzano di progettare il futuro, non fanno che rimescolare le carte del passato. Cioè giocare con i cubetti lego che hanno a disposizione. Quando leggo i giornali al mattino la sensazione di un continuo rimescolare delle stesse cose diventa sempre più forte.
Per superare questa situazione, che noi crediamo essere una crisi nata da mancanza di regole e da comportamenti poco etici, e che è, invece, sostanzialmente un blocco “cognitivo” di tutta una classe dirigente, noi stiamo proponendo un nuovo sogno per questa nostra mezza estate: diffondere ed iniziare ad usare a fini progettuali una nuova visione del mondo. E, poiché siamo persone pratiche, abbiamo già iniziato a realizzare questo sogno …
Il 21 luglio scorso abbiamo presentato in un Evento di Fondazione l’idea di un Expo della Conoscenza, che raccolga e renda disponibili tutti i modelli e le metafore che costituiscono la cultura della complessità. Le invio il programma di quella giornata. Le invierò, se sarà di suo interesse, gli atti della giornata stessa.
Per realizzare il nostro Expo della conoscenza stiamo cercando tutto l’aiuto possibile perché siamo convinti che l’Expo della conoscenza sia la proposta che possa sbloccare l’impasse della nostra vita economica, sociale, politica e istituzionale.
Ma sarebbe veramente dannoso per tutti se questa proposta fosse costretta a seguire la vicenda di tutte le proposte veramente innovative. All’inizio, vengono completamente trascurate da una classe dirigente che, prima, legge chi invia e, poi, se conosce l'emettitore, i contenuti, dimenticando che contenuti innovativi, per definizione, possono venire solo da sconosciuti. Viene trascurata dalla grande maggioranza, ma da qualcuno no! Questo qualcuno gli farà da cassa di risonanza, perché è davvero rivoluzionaria. Allora non sarà più trascurata, ma combattuta. Finalmente, ma inesorabilmente, si imporrà. Con tutta la susseguente e stucchevole esaltazione retorica e fuorviante di chi l'ha proposta come coraggioso campione dell'innovazione.
Io le scrivo questa lettera aperta, che pubblicherò sui nostri blog (http://balbettantipoietici.blogspot.com/ e www.meconsulting.org) perché a noi tutti, che scriviamo a leggiamo questi blog, piacerebbe molto una sua risposta. La ragione è che, se ha sentito il bisogno di scrivere il fondo di oggi, significa che condivide la nostra convinzione che un altro mondo non solo è possibile, ma doveroso. Le scrivo questa lettera aperta, allora, perché le propongo di diventare nostro alleato per realizzare davvero un Expo della conoscenza. Così  da fornire alla nostra classe dirigente un’intera nuova batteria di cubetti di lego per costruire una nuova
cattedrale sociale.
La ringrazio per l’attenzione e cordialmente la saluto
Francesco Zanotti

mercoledì 8 luglio 2009

21 Luglio “terza”. Discernimento e nuova progettualità


"Discernimento e nuova progettualità" è una espressione dell’Enciclica “Caritas in veritate”.
Essa rappresenta quella che a me sembra una risposta ad una stringente necessità: dobbiamo trovare un nuovo senso del fare impresa. Guardando con occhi più profondi l’oggi (discernimento) e con la voglia etica di costruire una nuova modalità di intendere e fare impresa.

Nella letteratura economico-manageriale questa sfida è riassunta in una sigla: CSR (Corporate Social Responsibility). Ma a me sembra sia ora di ripensare profondamente a questo concetto, forse proprio nell’ottica del discernimento e della nuova progettualità.

Fino ad oggi ha prevalso una concezione della CSR, che possiamo definire “industriale”. Si può sintetizzare nel modo seguente: fare ben il proprio “mestiere”, rispettando le leggi, non sfruttando le persone e la natura. E, auspicabilmente, rinunciando a parte del profitto per aiutare le aree del disagio o, mecenatescamente, per favorire una cultura che, detto per inciso, viene oggi mediamente intesa in senso “museale”.

Questa concezione spinge a valutare i vantaggi della CSR in modi molto “banali”: serve a dare una patina di “bontà” (quasi di buona educazione) che viene, enfaticamente, considerata: “vantaggio competitivo”. Ma che appare, sempre più, come solo e soltanto una medaglietta da esibire nei convegni.
Oppure, si sostiene che questa “medaglietta” possa venir premiata dal mercato azionario con una migliore valutazione del titolo. Ma i dati di questo ultimo anno smentiscono clamorosamente questa correlazione.

Dietro questa concezione “industriale” della CSR vi è una precisa visione dell’impresa: è un attore economico con una mission ed un business definito e stabile. Cioè con una funzione sociale definita, riconosciuta e stabile all’interno di una società altrettanto stabile e di una natura con risorse infinite. Questa impresa è immaginata avere una proprietà monolitica.
Il ruolo degli stakeholders viene considerato “di controllo” perché l’impresa non esageri nella ricerca del profitto.
Si considerano, insomma, le imprese come corpi staccati e specialistici della società.

In questa concezione della CSR si usa una specifica e limitata accezione di “sociale”. Con “sociale” si intendono, sostanzialmente, specifici settori della società: dalle aree di disagio al mondo del no profit. In sostanza, si contrappone il mondo economico del profitto e il mondo “sociale” della gratuità; considerando l’impegno nella gratuità come un modo per farsi perdonare il profitto.

Oggi questa concezione della responsabilità sociale e dell’idea di fare impresa che ci sta dietro non funziona più.

La recente crisi sta dimostrando che le imprese attuali hanno perso la loro capacità autonoma di produrre valore. Tutti credono che si possa superare la crisi solo se l’impresa viene soccorsa dallo Stato. In una società industriale (sia nella sua versione capitalista che collettivista) questo tipo di rapporto tra impresa e Stato nega la ragione stessa dell’esistere dell’impresa. Infatti, in una società industriale, è l’impresa che produce valore che, poi, lo Stato decide come impiegare. Lasciandolo, dopo le tasse, nella libera disponibilità dell’imprenditore se si tratta di uno Stato che crede nel mercato. Decidendone direttamente tutti gli impieghi in una società collettivista. Se si suppone che l’impresa non possa più produrre si trasforma una impresa in una burocrazia. Si dice che i sussidi sono solo temporanei e causati da una crisi eccezionale. Ma la tesi non è convincente. Non si sa quanti dovranno essere. Si dice addirittura: tutti quelli che servono. Non si sa fino a quando.

La proprietà dell’impresa è tutt’altro che monolitica. E’ rappresentata da un variegato “parterre” di attori i cui interessi non sempre coincidono: dai risparmiatori, ad investitori istituzionali di tipo diversissimo, a soci “industriali”. Fino ad arrivare ad imprese dove entrano nei “giochi proprietari” anche il sindacato ed altri attori sociali. Non solo, ma anche il sistema di interessi del management non è esattamente sovrapponibile con quello degli azionisti.

Sia i business delle imprese che la società che li “contiene” stanno/devono evolvere. E questa evoluzione non è indipendente, ma è una coevoluzione. Consideriamo, ad esempio, le compagnie di assicurazione. Le loro più nuove e rilevanti aree di business sono la previdenza e la sanità. Ora l’evoluzione di queste aree di business dipende/determina l’evoluzione del sistema di Welfare complessivo.

Le strategie di business non sono necessariamente determinate dal gioco competitivo, ma possono essere ispirate da scelte sociali. Facendosi ispirare non dai competitors, ma dalla società (le nuove istanze sociali, le nuove conoscenze, la nuove speranze) si riescono ad immaginare strategie di business veramente rivoluzionarie. Forse è questo il significato più profondo dell’apertura alla società ed alle sue esigenze: attivare intensi processi di innovazione.

Gli stakeholders non accettano di essere relegati ad un ruolo di controllo formale. Ma cercando di “impicciarsi” sempre di più nella vita delle imprese.
Gli stakeholders costituiscono una ecologia variabile. Infatti, stanno acquisendo sempre più ruolo gli stakeholders “emergenti” che si formano come reazione “emergente” alle scelte strategiche delle imprese.

La natura, che ospita la coevoluzione di business e società, è tutt’altro che infinita. Anzi, si sta dimostrando capricciosa e molto esigente. Quasi non sopporta più l’invadenza di una società come quella industriale e inizia a non essere più in grado di soddisfare esigenze “igieniche” come quelle di materie prime e cibo.

Allora è necessaria un’altra visione del rapporto tra imprese e società. Se, nel passato, l’impresa era un corpo separato dalla società, oggi dobbiamo dire che la società ha invaso l’impresa. E l’impresa la società. L’impresa deve cambiare il suo “mestiere” tradizionale e la società, coerentemente e contestualmente, deve cambiare la sua struttura profonda.

Conseguentemente è necessario recuperare il senso complessivo di “sociale”. Con questo aggettivo non intendiamo qualche parte della società, ma ci riferiamo alla società nel suo complesso.

Se cambia il rapporto tra impresa e società, come abbiamo cercato di esemplificare, allora deve cambiare il concetto di CSR.

In una società così profondamente dinamica, è necessaria una concezione della CSR che possiamo definire “strategica”. Essa vede l’impresa come un attore profondamente immerso in questa società del cambiamento. Contribuisce ed è condizionata dallo sviluppo complessivo della Società.

martedì 7 luglio 2009

Ci sta sfuggendo che ad una domanda fondamentale non stiamo dando una risposta



E’ una piccola seconda tappa verso il nostro Evento di Fondazione …
E propone una domanda fondamentale alla quale stiamo dando una risposta sbagliata.
Una domanda che certamente discuteremo nel nostro Evento di Fondazione. Una domanda che è un ologramma complessivo della crisi.

L’occasione per guidare l’attenzione su questa domanda, banale, ma fondamentale è data da un articolo apparso oggi (7 Luglio 2009) sul Sole 24 Ore, Le ricette nazionali non risanano le banche, a firma di Marco Onado.
Il titolo è: le ricette nazionali non risanano le banche. E’ un articolo lucido, che suggerisce strategie complessive e non “particolari” per risanare il sistema bancario.
Nessuna obiezione su queste strategie, una domanda, però. Supponiamo che le banche siano risanate, fortemente capitalizzate ed accettino di concentrarsi nel servizio alle famiglie ed alle imprese. Ora, perché le cose funzionino, occorre che le imprese producano valore (non solo economico, aggiungo io) per pagare stipendi adeguati (cioè garantire risorse alle famiglie), compensare il servizio delle banche e restituire i soldi che ricevono in prestito.
Ma, ecco la domanda banale, ma essenziale: come facciamo ad essere sicuri che le imprese torneranno a produrre valore?
E’ una domanda alla quale è urgente rispondere, ma alla quale stiamo dando la risposta sbagliata!
Infatti, stiamo, anche esplicitamente, ipotizzando che sarà inevitabile che le imprese torneranno a produrre valore perché, quando la finanza, causa della crisi, sarà risanata, tutto tornerà come prima. Si tornerà ad acquistare e, grazie a questo, le imprese torneranno a produrre valore.

E’ un’ipotesi che non sta in piedi! E’ una risposta sbagliata.
Basta leggere il pezzo di Giampaolo Fabris su Affari e Finanza del 6 Luglio 2009: Il paradosso dei saldi. Oggi convengono di più, ma attirano meno. E’ un ologramma della risposta giusta. Il vero problema è che i prodotti attuali sono sempre meno interessanti e se ne comprerà sempre di meno valutandoli sempre meno. Di più: i sistemi di produzione, di trasporto e distribuzione non sono più sostenibili. Questo significa che l’attuale sistema delle imprese può ristrutturarsi quando vuole, diventare competitivo quanto vuole, ma, piano piano, sta perdendo di significato. Le imprese che producono i prodotti di oggi con i sistemi produttivi di oggi dovranno essere sempre meno. Dovranno nascere nuove imprese che produrranno prodotti diversi con sistemi produttivi, di trasporto e di distribuzione altrettanto diversi.

Torniamo alle banche. Come potranno le banche risanate non tornare nei guai? Dovranno imparare a capire quali saranno le vecchie imprese che potranno continuare a vivere, accompagnare ad una onorevole chiusura le imprese che non potranno farcela. E, soprattutto, supportare la nascita di nuove imprese.
Se questa è la situazione, allora, esortare le banche a tornare ad occuparsi di imprese e famiglie rischia di essere troppo generico e, quindi, retorico. Occorre spiegare alle banche come occuparsi diversamente delle imprese. Fornire loro una nuova cultura di valutazione, di stimolo alla progettualità strategica. Questa nuova cultura ancora non esiste! Non è che esiste e vi sono i cattivi che non la vogliono usare, gli ignoranti che non la conoscono e i maestri che vanno incentivati ad insegnarla. E’ necessario un grande progetto di ricerca per svilupparla. Noi abbiamo fatto un passo in questa direzione. Ne parleremo nel nostro Evento di Fondazione.

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Ce ne stiamo accorgendo a colpi di crisi ricorrentesi in ogni dimensione dell'umano. E' evidente che dovunque guardiamo c'è qualcosa che, gravemente, non va: lo sviluppo economico, la povertà, il rapporto con la natura, la soddisfazione sul lavoro e le profonde esigenze di realizzare una vita degna... E allora vogliamo smetterla di denunciare il passato? Sta diventando stucchevole cercare l'ennesimo cantuccio della stanza della società industriale e scoprire ancora una volta l'accumularsi di una polvere. E' il momento di lasciar riposare per un po' la denuncia e la protesta anche perché, se siamo onesti, dobbiamo chiederci: ma noi dove eravamo in questi anni?

Vivevamo su Marte e improvvisamente siamo tornati sulla terra ed abbiamo scoperto che quegli inetti di terrestri, dopo la nostra denuncia, non aveva fatto nulla. E tocca ancora a noi risvegliare le coscienze? Certo che no! Noi abbiamo vissuto immersi in questa società. Sono anche le nostre azioni che hanno mantenuta chiusa la stanza. Lasciando accumulare e incancrenire polvere. Viene quasi da dire: l’accumularsi e l’incancrenirsi ci fa comodo perché la nostra unica competenza era il contestare. Visto che sul costruire abbiamo dato tutti pessima prova.
E non si dica che qualche potere forte, da qualche parte ha impedito che le nostre folgoranti idee liberassero la stanza dalla polvere dell’ingiustizia, del privilegio … Quelli che sembrano poteri forti lo sono solo di fronte alla nostra incapacità di costruire alternative.
Cara e vecchia società di tutti noi, dunque. Che ci ha permesso di superare secolari infelicità … Certo non tutte, certo non a tutti, certo non ugualmente, ma molto.
Cara e vecchia società dalla quale ora dobbiamo allontanarci con un pizzico di nostalgia. Portandoci dentro lo zaino che accompagna ogni viaggio tutto quello che di buono ha prodotto.
E con il passo che diventa sempre più baldanzoso a mano a mano che diventa chiaro il luogo, la nuova società verso la quale siamo diretti ..
Ma verso quale luogo vogliamo dirigerci? Quale nuova società vogliamo costruire?
Noi certo non lo sappiamo! Sappiamo solo come fare a costruirla!

Allora la nostra proposta è strana. Non abbiamo soluzioni, linee politiche, idee originali. Ma un metodo con il quale generarle.
Primo passo di questo metodo: cambiamo i linguaggi. Secondo usiamo questi nuovi linguaggi per progettare insieme .. Accidenti, mi rendo conto che mi sto avventurando in un sentiero accidentato …
Allora provo con una storiella. Pensiamo di indossare occhiali verdi e di dover dipingere una parete di un nuovo colore: il verde ci ha seccati. Ai nostri piedi abbiamo una vasta gamma di barattoli di vernice. Ma tutti i colori ci sembrano gradazioni del verde. E, così, piano piano ci sembra inutile ridipingere una stanza di un nuovo colore che potrà essere solo una gradazione di verde. Accidenti ai poteri forti che ci costringono a dipingere sempre e solo di verde …
Ma poi arriva qualcuno che ci convince che un certo barattolo contiene il rosso. Ma apparirà rosso solo quando lo stendiamo sulla parete … Così, spinti da nuova fiducia e dalla voglia di avere nuova fiducia, cominciamo a dipingere. Ma, anche dopo averlo steso sulla parete, quel colore continua ad essere l’ennesima gradazione del verde. Allora la nostra collera e massima: certo solo un grande complotto di qualche potentato molto potente ci può costringere a naufragare in un mare di verde …
Maledetti poteri forti .. .
Così attiviamo un Gruppo antiverde. Che, innanzitutto, continua ossessivamente a dimostrare che tutto è di quel verde che, oramai invece di speranza, sta a segnalare schifezza. E poi cerca di buttare via tutti i barattoli …
Cosa significa partire dai linguaggi e dal metodo per usarli?
Significa togliersi gli occhiali verdi. E riuscire così a scoprire che tutti i barattoli sono effettivamente di mille colori. Riuscendo a vedere mille colori rinasce davvero la speranza di poter dipingere diversamente la stanza. Ma non possiamo stare senza occhiali ed ogni tipo di occhiale, anche il più sofisticato, altera i colori … Anche il rosso più sfavillante sarà, poi, sempre, ideologicamente, rosso … Ed allora che fare? Impariamo a cambiare occhiali quando vogliamo vedere cose diverse. Ma, poi, come dipingiamo quella stanza? Inevitabilmente tutti insieme con occhiali diversi. Perché ognuno può portare un solo tipo di occhiali per volta. E per fare della stanza un capolavoro, sono necessari tutti i colori. Quando il dipinto a mille mani sarà finito potremmo vedere un miracolo che piacerà a tutti e che tutti potranno vederlo in modo sempre diverso. Basterà indossare gli occhiali degli altri e se ne scoprirà un bellezza diversa.
Allora il nostro programma è molto semplice. Apparirà forse banale e ininfluente: diffonderemo nuovi linguaggi ed attiveremo gruppi progettuali che li useranno per progettare i mille aspetti di una nuova società.
I linguaggi sono i modelli e le metafore che nell'ultimo secolo, provenendo sostanzialmente dalle scienze della natura, si sono aggiunti a quelli tipici della società industriale.
Il metodo con il quale li useremo sarà Sorgente Aperta …
Ma perché “balbettanti”? Perché nel progettare un nuovo mondo ci rendiamo conto che il primo esprimersi non sarà che un balbettio. E, perché “poietici”? Perché il balbettio dovrà essere fecondo. Si trasformerà certamente in storie che cominceranno ad essere vissute.
Allora anche questo manifesto è un balbettio poietico? Certamente. Speriamo di doverlo riscrivere al più presto meno balbettante e più fecondo.