di
Paolo Savona
con un commento di Francesco Zanotti
Caro De Bortoli,
proprio mentre si andava facendo strada l’idea di
chiedere una rinegoziazione dei patti europei (vedi l’ultimo editoriale di
Alesina e Giavazzi sul tuo stesso quotidiano), ho letto il tuo articolo odierno
sui danni in cui incorrerebbe il Paese se decidesse di uscire dall’euro. Se ho
ben capito, ti avvali del modello di Prometeia per avvalorare queste tue
previsioni, ammantate di un’oggettività che non ha radici scientifiche, perché
non può averle. Se il modello usato è di tipo econometrico, esso non può cogliere
che cosa accadrebbe se l’Italia uscisse dall’euro, perché l’anomalia
dell’evento non può essere colto negli eventi del passato che sono alla base di
qualsiasi di questi calcoli.
I risultati potrebbero essere usati se i grafici
venissero presentati con le osservazioni statistiche del passato, a cominciare
dal 1992, data in cui il Trattato di Maastricht è stato firmato inducendo
cambiamenti nella politica monetaria prima e poi in quella fiscale. Queste
osservazioni andrebbero interpolate con una linea di trend che parte da quella
data e continua nei grafici che hai riportato nel tuo articolo. Così otterresti
un’imparziale stima dei costi che avresti stando nell’euro o uscendone, che
sarebbe rozza in entrambi i sensi, ma certamente meno seguendo la linea di
trend.
Allo stato dei fatti, i fondamentali dell’economia non
sono tali da giustificare l’attesa di una svalutazione della neo-lira: 1.
abbiamo un surplus relativamente elevato di bilancia corrente estera, che The
Economist pone nell’ordine di 2,5% di PIL (47,5 mld di dollari), un risparmio
in eccesso che l’Italia non può mobilitare perché i privati non investono e lo
Stato non può spendere, anzi deve accrescere (vedi manovra in corso); 2.
l’inflazione al consumo è di poco inferiore al resto dell’euroarea; 3. La
crescita della domanda aggregata è molto fiacca, quasi la metà dell’euroarea, e
la produzione industriale in calo (-0,5%). Le ragioni economiche di una
svalutazione grave, seguita dall’inflazione e da una crescita reale modesta,
come tu e Lorenzo Forni sostenete, non esistono; semmai dovrebbe accadere il
contrario, ossia la neo-lira si dovrebbe apprezzare e l’inflazione ridursi.
Anch’io, a spanna, senza vesti formali impossibili da avere, ho sostenuto che
si possa incorrere in un deprezzamento del cambio nell’ordine del 20-30%, se
prima non organizziamo una linea di difesa internazionale (spero di non
illudermi nel credere che la Banca d’Italia l’abbia già in agenda); essa
sarebbe seguita da un’inflazione tra il 10-20%, ma si avrebbe un rilancio forte
delle esportazioni, che da noi, come noto, sono sensibili al prezzo. Allo
stesso tempo, però, mi attendo, sulla base dei cicli passati, un’inversione di
tendenza entro due anni, ma non nel senso da te indicato, che le conoscenze
econometriche non ratificano; si avrebbe un recupero della stabilità potendo
esercitare gli strumenti di politica economica che l’Unione Europea, così com’è
strutturata, non può, né intende usare.
Se svalutazione e inflazione dovessero affermarsi,
avrebbero diverse radici rispetto allo stato della nostra economia: inciderebbero infatti la speculazione (quella che richiede d’essere governata con la linea di
difesa auspicata) e la sfiducia del mercato internazionale sulle capacità dei
nostri governanti. Su questo potremmo anche essere d’accordo, pur ritenendo che
esistono rimedi; ma certamente non è quello di diffondere il terrorismo
economico sul possibile crollo dell’euro, che può capitarci addosso senza
essere noi a deciderlo, come insistentemente scrivono i giornali e i commentatori
più qualificati. Spaventare, invece di rimuovere le cause od organizzare una
difesa appropriata, non è una politica sufficiente per contrastare i movimenti
anti-euro e anti-europeisti attuali; anche perché essi la pensano come la
speculazione, ossia condividono la valutazione di un’incapacità dei nostri
governanti a fronteggiare la crisi interna ed europea.
La mia conclusione è che, per allontanare il rischio di
un crollo dell’euro, meglio se deciso e governato da noi, non dai mercati o da
altri membri dell’eurosistema, occorre esplicitare chiaramente quali sono le
richieste di riforme istituzionali che dobbiamo avanzare all’Unione Europea,
insieme a un cambio di politica, che non è quella di spendere di più per
assistenza, ma per investimenti infrastrutturali. Tuttavia, per avere successo
nel negoziato, è necessario che la controparte sia convinta che siamo pronti al
passo successivo se non venissimo accontentati. Diffondere terrore economico
sulle conseguenze dell’uscita dell’euro, convincendo l’elettorato che non si
debba uscire, significa partire perdenti, esattamente come siamo ora.
Commento di Francesco Zanotti
Il post del Prof. Savona mi
sembra sostenga indirettamente, ma chiaramente una delle nostre convinzioni più
determinate. In sintesi: le classi dirigenti non parlano di quello di cui
sarebbe necessario e importante discutere, ma di quello di cui sanno parlare.
Il prof. Savona richiama sane nozioni riguardante la modellizzazione matematica,
ma per interloquire con lui occorre che i suoi interlocutori abbiano una
qualche idea di quello di cui sta parlando.
In generale le nostre classi
dirigenti dispongono di risorse di conoscenza troppo povere per discutere della
complessità economica e sociale attuale.
E’ questo che genera sui
media dibattiti puerili che servono solo a difendere le classi dirigenti dall’inevitabile
affermarsi di ricorse di conoscenze di cui non dispongono, che non vogliono in
nessun modo imparare. Studiare sembra essere una “diminutio”. Meglio continuare
a dibattere di quello che si riesce a vedere con le conoscenze di cui si
dispone. E il pubblico applauda ammirato. Anche se il teatro sta diventando
sempre più simile alla sala da ballo del Titanic.
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