di
Francesco Zanotti
Oggi Gianfranco Polito (con un titolo troppo pretenzioso
per i contenuti dell’articolo: “Il motore spento della modernità”) sul Corriere
della Sera propone una tesi che ha del vero: non riusciamo ad affrontare i “casini”
(preferite la oramai inflazionata espressione “cigni neri”?) perché siamo “poveri”. Perché in Italia si è
interrotto il meccanismo di produzione di ricchezza. Forse la tesi va
trasformata: perché non sappiamo riconoscere la ricchezza.
Gianfranco Polito richiama i
guai che provoca la disorganizzazione “formale” nella protezione civile e più
in generale nella burocrazia quando accadono casini catastrofici. E sostiene
che essi vengono poi mitigati dalle “organizzazioni informali” (le persone e il
loro relazionarsi spontaneo) che riescono a trasformare bolse burocrazie in
miracoli di generosità.
A questo punto ci si
dovrebbe chiedere: ma come eliminare questa discrasia tra formale ed informale?
Come è possibile fare sì che la burocrazia sia non un ostacolo, ma l’ambiente
più funzionale alla generosità delle organizzazioni informali?
Invece il Nostro sostiene
che la colpa è solo della mancanza di mezzi e questa mancanza di mezzi è dovuta
alla nostra incapacità di generare ricchezza. Insomma, i casini nascono perché siamo
troppo poveri e lo siamo perché non sappiamo più generare ricchezza (leggi:
PIL).
Lasciamo stare la polemica
sul salto logico (che c’entra la ricchezza con incapacità di comprensione del
rapporto tra formale ed informale in una organizzazione?) ed affrontiamo il
problema della nostra attuale incapacità di generare ricchezza.
Il problema è che abbiamo una
profondamente scema concezione della ricchezza.
E facciamo subito un esempio
di questa “scimità”.
Se una impresa produce
scarpe che non venderà mai, che le sono costate e che dovrà conservare in un
magazzino, che continuerà a costarle, fino a che non si saranno ammuffite e
verranno buttate, si considera ricchezza (che va a formare il PIL) il prezzo a
cui chi la gestisce vorrebbe venderla e che ha segnato a bilancio. Cioè si
considera ricchezza un pio desiderio.
Se invece noi scriviamo su
questo blog, voi lo leggete e magari lo diffondete, tutto questo “lavoro” non
genera ricchezza. Se un insegnante costruisce conoscenze nella sua classe non
genera ricchezza. Se tanti gruppi di persone si ritrovano a progettar il futuro
non generano ricchezza.
In generale, tutte le occasioni
di produzione di conoscenza non sono considerate eventi che generano ricchezza.
Paradossalmente la conoscenza che riconosciamo è solo quella “museale”. Come a
dire: solo gli “antichi” avevano la prerogativa di produrre ricchezza, ma noi no!
Perché scarpe destinate a
finire ammuffite sono considerate ricchezza, mentre i nostri pensieri e le nostre azioni non possono
essere considerate ricchezza almeno allo stesso modo?
E’ ovviamente un assurdo! Perché
difendiamo un assurdo?
Ed arriviamo al titolo pretenzioso.
Il motore della modernità è la visione del mondo tipica della modernità. Bene questo titolo pretenzioso andrebbe corretto con un “non”. “Non si è spento il motore della modernità”, occorrerebbe dire. Infatti il riconoscere come ricchezza solo scarpe ammuffite e non i capolavori che sempre generano persone che insieme parlano del futuro è proprio conseguenza del leggere la realtà con gli occhi propri della società industriale. Per completare. È proprio il leggere la realtà con gli occhi della modernità che impedisce di costruire organizzazioni formali a servizio delle reti sociali delle persone che ci vivono dentro.
Il motore della modernità è la visione del mondo tipica della modernità. Bene questo titolo pretenzioso andrebbe corretto con un “non”. “Non si è spento il motore della modernità”, occorrerebbe dire. Infatti il riconoscere come ricchezza solo scarpe ammuffite e non i capolavori che sempre generano persone che insieme parlano del futuro è proprio conseguenza del leggere la realtà con gli occhi propri della società industriale. Per completare. È proprio il leggere la realtà con gli occhi della modernità che impedisce di costruire organizzazioni formali a servizio delle reti sociali delle persone che ci vivono dentro.
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