di
Francesco Zanotti
La precarietà certamente genera insicurezza, paura. Anche se, ovviamente, non in tutti. Occorre dire che c’è chi non accetterebbe nulla di diverso dalla precarietà. C’è chi non ha nessuna voglia di legare il proprio futuro ad una sola impresa. Che considera se stesso la propria impresa. Ma questo desiderio di libertà imprenditoriale non può diventare “obbligatorio”. Occorre, ovviamente, costruire posti di lavoro stabili per tutti coloro che, invece, sentono la precarietà come un limite alla propria autorealizzazione.
Per tutti costoro, scrivo il presente post. Ed avanzo una proposta: dobbiamo spostare l’attenzione dal posto di lavoro all’economia. E’ l’economia che è precaria. La precarietà del posto di lavoro è solo una conseguenza della precarietà dell’economia. Il lettore non pensi che sto cercando di difendere la precarietà. Sto cercando una stabilità (per coloro che la desiderano) vera e non finta e insostenibile. Cercando una stabilità vera, metterò sul banco degli imputati gli imprenditori (non solo economici, ma sociali, politici, istituzionali, culturali) non perché sono egoisti (vogliono guadagnare troppo alle spalle dei precari). Ma perché non innovano questa economia e questa società. Facendo un danno, innanzitutto, a loro stessi e, poi, a tutti coloro che vedono loro come garanti della stabilità.
Spostare l’attenzione dal lavoro all’economia. De-precarizzare l’economia come unica via per
de-precarizzare il lavoro.
de-precarizzare il lavoro.
Per illustrare questa tesi, provo a esaminare cosa voglia dire pensare a de-precarizzare, stabilizzare il posto di lavoro senza occuparci d’altro.
Che tipo di soluzione si propone, in questo caso, al problema dei precari? La stessa soluzione che aveva usato il gran cancelliere Antonio Ferrer per affrontare la crisi del pane: intervenire con la regolazione. In questo caso: eliminiamo la possibilità di assumere con contratti a tempo. Oppure facciamoli costare così cari che non convengono più.
Cosa succede se tentiamo di mettere in pratica questa soluzione regolatoria in una economia precaria? Si innesca una illusione di sicurezza e si crea una precarietà sistemica.
Ripartiamo dai basics. Una impresa paga gli stipendi se ha i soldi per farlo. Se non ha i soldi per farlo non può pagarli. Allora io, imprenditore, posso anche assumere a tempo indeterminato, ma se, poi, a fine mese, non ho soldi per pagare lo stipendio, che faccio? Se non ho i soldi, il tempo indeterminato diventa una promessa irrealizzabile. Possiamo forse fare una legge che impone alle banche di prestare i soldi all’imprenditore? Potremmo anche immaginare di farlo. Ma: le banche dove li vanno a prendere i soldi? Dal loro capitale (che, però, è piccolissimo), ma soprattutto, dai risparmi. E se gli imprenditori a cui hanno prestato i soldi degli stipendi non riescono a restituirli? Ci vanno di mezzo i risparmiatori, che spesso sono i genitori dei precari. Allora intervenga lo Stato. Ma, al di là del fatto che, se lo Stato garantisce gli stipendi delle imprese, allora andiamo verso una economia collettivista che non ha mai funzionato, chiediamoci da dove lo Stato prende i soldi. O batte moneta (ma allora si crea inflazione) o li prende dai cittadini che ce li hanno. Supponiamo anche che si parta depauperando i ricchissimi. Ma non basterebbe. Alla fine si torna sempre al cittadino risparmiatore.
La vera soluzione, allora, è che le imprese riprendano a generare tanta cassa (cassa e non profitti, perché è con la cassa e non con i profitti, spesso virtuali, che si pagano gli stipendi). Poi, ci si porrà il problema di come dividere la cassa generata. Ed allora avrà senso una regolamentazione che guidi ad una equa distribuzione della cassa generata.
Ma per far sì che le imprese riprendano a produrre tanta cassa, è necessario rivoluzionare il nostro sistema industriale, economico e sociale. Cosa che le nostre classi dirigenti (che non sono più imprenditoriali) si guardano bene dal fare.
Se tutto questo è vero, allora cominciamo ad innalzare cartelli che chiedono innovazione profonda. A tutta la classe dirigente. Non solo agli imprenditori o ai politici di parte avversa a chi espone i cartelli.
Ma non possiamo fermarci qui. Abbiamo sostituito i cartelli che esibiamo, ma siamo ancora alla protesta, giusta, ma sempre solo protesta.
Se chiediamo innovazione profonda, non possiamo che fare un ulteriore passo: l’innovazione profonda richiede una progettualità intensa, profonda, diffusa.
Se è necessaria una progettualità intensa, profonda, diffusa, allora deve essere una progettualità di tutti. Gli imprenditori che vorranno innovare profondamente dovranno inevitabilmente chiamare a raccolta l'energia creativa di coloro che lavorano per loro ed allargarla a nuove persone, perché un gruppo che ha costruito un’impresa e ci lavora da anni difficilmente riuscirà ad immaginare un’impresa diversa. Allora, cambia il ruolo del lavoratore: non è solo un fornitore di mano d’opera, ma anche di idee, di innovazione. Se diventa anche operatore di innovazione, allora cambia inevitabilmente il rapporto con l’impresa. E’ l’impresa che vuole legarlo a lungo termine. E questo legame non lo si può realizzare solo con lo stipendio: l’impresa diventa sostanzialmente non solo di chi fornisce i mezzi di produzione materiali, ma anche di coloro che ne forniscono le risorse immateriali di innovazione.
Propongo, infine, di esporre un nuovo cartello: imprenditore, hai bisogno di me per innovare. Tu sai che per costruire un nuovo patto per l’innovazione che ti salva l’impresa non ti serve in nessun modo la dimensione della precarietà. Parliamone, privatamente, pubblicamente, politicamente.
Pubblico con piacere il commento del Dott. Pietro Ichino, senatore PD.
RispondiEliminaHo letto con molto interesse l'articolo, condividendone pienamente l’idea di fondo. Mi permetto solo di insistere sull’idea che la sostituzione del controllo giudiziale sui licenziamenti non disciplinari con un diversa forma di responsabilizzazione economica dell’impresa (che costituisce l’innovazione più incisiva contenuta nel mio d.d.l. n. 1873/2009), oltre a consentire un ampliamento della quota di assunzioni a tempo indeterminato, darebbe anche un contributo assai rilevante al rafforzamento della nostra economia, allo sviluppo in essa dell’innovazione. In altre parole: consentirebbe al tempo stesso di de-precarizzare i rapporti di lavoro e di de-precarizzare la nostra economia.