lunedì 8 dicembre 2014

Partiti liquidi o liquefatti?

di
Francesco Zanotti


Il riferimento è all'articolo di fondo di Sabino Cassese sul Corriere di oggi. Egli parla dell’avvento di partiti organizzativamente liquidi che, sostiene, da un lato, sono positivi perché rompono quei fortini autoreferenziali (questa espressione è mia) che erano diventati i partiti. Ma, dall'altro, producono anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente.
Il primo commento è che non è vero che i partiti organizzativamente duri sanno selezionare le classi dirigenti. Anzi, è vero il contrario. Dopo la classe dirigente (politica ed imprenditoriale, per la quale vale un discorso analogo) che ha costruito nel dopoguerra questo paese si è andati di male in peggio. Basta confrontare le figure di De Gasperi e Togliatti (per non parlare degli altri) con i leader che si confrontano oggi per convincersene.

Ma, poi, il vero tema è che occorre cominciare a parlare di “struttura cognitiva”. Un partito liquido ha bisogno di risorse cognitive radicalmente diverse da quella usate nel passato per poter svolgere una funzione positiva. Sono necessarie conoscenze transdisciplinari e metodologie di stimolo progettuale e di sintesi. Non competenze di comunicazione cabarettistica. Con queste competenze un partito diverrebbe organizzativamente liquido, ma cognitivamente progettuale ed aggregante. Ma chi si occupa di discutere della qualità delle risorse cognitive che sono nella disponibilità dei partiti? Non è che gli scienziati della politica dovrebbe almeno conoscere lo stato dell’arte degli studi organizzativi per capire la differenza tra struttura formale ed informale che li porterebbe a comprendere che i partiti dovrebbero essere contemporaneamente organizzati e liquidi.

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