di
Cesare Sacerdoti
E’ indubbio che l'Italia, ma anche l'Europa e l'Occidente in generale, stiano vivendo un momento molto difficile dal punto di vista economico, ma ancor più dal punto di vista sociale: in questo blog abbiamo sostenuto più volte che quella attuale è solo una delle manifestazioni di una ecologia di crisi che il mondo attuale sta vivendo.
L'atmosfera che si respira in Italia in questo momento è resa ancora più cupa dalle continue notizie negative che provengono dalla nostra situazione economico finanziaria e dai continui annunci di nuovi sacrifici richiesti ai cittadini per evitare il fallimento del paese; e questa sensazione è ancor più acuita dal contrasto con le informazioni che ci venivano somministrate quotidianamente fino a sei mesi fa, quando ci veniva detto che la crisi, ammesso che ci fosse mai stata, era alle spalle. D'altra parte, per dirla come Bruno Arpaia “ormai una notizia è una notizia solo se inocula una sottile dose di paura”.
Ricordo inoltre le considerazioni del professor Marco Vitale all'assemblea ATEMA di aprile 2011, in cui si sottolineava come la quota percentuale italiana delle esportazioni mondiali nel settore manifatturiero sia rimasta praticamente costante al 3,9% dal 2000 (così come la quota tedesca che era rimasta costante al 6,5%, mentre gli Stati Uniti scendevano dal 24,8 al 15,1 e il Giappone dal 15,8 all'8,9) e che su 14 settori monitorati dal WTO, la Germania mediamente al primo posto seguita dall'Italia che risulta prima o seconda in 7 settori su 14.
Ma, allora, l'Italia non ha un problema di competitività o almeno non ce l'ha in quei settori in cui riesce ad esprimere prodotti innovativi o caratterizzati da una qualità difficilmente raggiungibile in altri paesi.
Se questo è vero, allora il problema italiano non risiede tanto nella competitività ma nella capacità di incrementare il numero di aziende che sappiano esprimere tali caratteristiche. Simon e Zatta in “campioni nascosti” sostengono che “Il modo più semplice in cui un'azienda possa diventare padrone di un mercato consiste nel crearne uno. Idealmente, si tratta di un mercato che non esiste ancora e viene creato o definito dal nuovo prodotto. Inoltre, l'unicità del prodotto deve essere sostenibile scongiurando a tutti i costi l'imitazione o la creazione di mercati simili”.
Tornando alla notizia del 13 dicembre, vediamo che, in effetti, la quota totale (non solo manifatturiera) percentuale italiana sulle esportazioni mondiali è scesa negli ultimi sette anni da circa il 4% a circa il 3%: questo allora significa che ci sono molti settori non manifatturieri, nei quali l'Italia non riesce più ad esprimere la differenza rispetto ad aziende di altri paesi. Se inoltre consideriamo che il totale delle esportazioni nei primi nove mesi del 2011 è di circa 280 miliardi, che corrisponde a circa 370 miliardi su base annua, vediamo che queste rappresentano meno del 25% del PIL nazionale.
Ci permettiamo quindi di suggerire che il problema dell'Italia non è tanto “ liberalizzazioni e mercato del lavoro” quanto quello di diffondere nuove conoscenze che permettano lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali che consentano di creare nuovi mercati in cui le aziende italiane possono svilupparsi, crescere, affermarsi e diventare leader mondiali. E questo è l'augurio al nostro paese per il 2012.
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